venerdì 25 giugno 2010


di Cinzia Picchioni - 23/06/2010


Recensione dell'interessante libro "Shock Shopping"
La domanda se la sono posta al settimanale «Economist».
Il marketing da un lato educa a non affezionarsi in modo duraturo ai beni […] dall’altro, incentiva uno scontento per le identità preesistenti, che causa il ricorso alla chirurgia plastica per adeguarsi ai nuovi canoni estetici […]Mantenere un’insoddisfazione permanente, perché «la strada tra il negozio e il secchio della spazzatura deve essere sempre più breve e veloce».[…]Si determina la metamorfosi dall’homo politicus in homo consumens, da cittadino a consumatore[…] (p. 91)
In Manoscritti economici filosofici (1884) Marx scriveva: «Ogni uomo s’impegna a procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo a un nuovo sacrificio, per ridurlo a una nuova dipendenza e spingerlo a un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica» (p. 7); non vi sembra che calzi perfettamente come descrizione di un nuovo centro commerciale?
Il libro si chiama Shock Shopping, e lo shock è assicurato quando scopriamo che esistono dei microchips, grandi come un granello di sabbia, inseriti nelle confezioni, che contengono le informazioni sul prodotto, così la Grande Distribuzione Organizzata (questo vuol dire GDO, la sigla che trovate ogni tanto negli articoli e anche in questo libro) potrà seguire il prodotto dal magazzino allo scaffale, dallo scaffale alla casa del consumatore, da qui alla spazzatura e controllare e studiare le preferenze d’acquisto di tutti noi! Ho già sperimentato questo progetto
(in un punto di vendita Carrefour, che lo sta applicando gradatamente, mentre è già operativo da tempo nei negozi della catena Wal-Mart): ho acquistato due tipi di verdura diversi, ma poiché avevano lo stesso prezzo, le ho pesate insieme e le ho messe insieme in un unico sacchetto (nell’ingenuo tentativo di risparmiare plastica e carta dello scontrino…). Quando sono stata alla cassa la cassiera, anche un po’ seccata, mi ha detto: «La prossima volta mi farà la cortesia di utilizzare un sacchetto per ogni prodotto, perché vogliono sapere esattamente che cosa ha acquistato» (e in quel modo avevano solo un dato: il peso e il prezzo del primo tasto premuto da me alla bilancia, e che si riferiva a uno solo dei due prodotti con il medesimo prezzo. Risultava così che io avessi comperato due chili di patate, invece di un chilo di patate e un chilo di carote!!!
Leggerete la storia dei Lidl e delle vere ragioni dei prezzi così bassi (p. 39); leggerete la vera storia dell’Aspirina (p. 24) scoprendo che ha a che fare, pensate un po’, con Auschwitz; scoprirete che non ci sono sempre stati i centri commerciali (non potevo crederci, sono nati nel 1958, quando sono nata io! Vuol dire che quando sono nata c’erano solo i negozietti sotto casa (dove infatti da bambina mia madre mi spediva a comperare, senza soldi, perché c’era un libretto a nostro nome e «si segnava», per pagare a fine mese, quando arrivava lo stipendio di mio padre), il primo supermercato Esselunga sbarca a Milano nel 1957!; leggerete i dati sconcertanti sui rifiuti elettronici (nel 2004 ogni abitante ne ha prodotti per 1 chilo e 300 grammi, cioè 74.000 tonnellate); scoprirete la vera natura dello slogan «Parola di Francesco Amadori», con il simpatico accento romagnolo che fa subito pensare a polli ruspanti e galline felici, e invece…; ricorderete di guardare di nuovo (se lo avete già fatto) Super Size Me, l’inchiesta (rimasta pochissimo nelle sale) sul fast-food e la cattiva alimentazione che dimostra come i bambini a cinque anni riconoscono a stento George Washington o Gesù, ma non hanno dubbi sul pagliaccio coi capelli rossi, Ronald McDonald; e ancora, ci informa che una pericolosa dipendenza proviene dall’endorfina del formaggio, mischiata alla carne, agli onnipresenti zuccheri e alla caffeina delle bibite gassate, così il bambino-consumatore si abitua a quei sapori artificiali e non saprà più riconoscere quelli genuini (p. 55);
È il consumismo a darci la misura dei nostri valori. […] è lo strumento migliore mai inventato per controllare le persone. Nuove fantasie. Nuovi bisogni, nuove antipatie, nuove anime da salvare. Per qualche strana ragione, chiamiamo tutto questo shopping. In realtà è la forma più pura di politica». Il centro commerciale, l’ipermercato, il supermercato, le multisale cinematografiche, i parchi giochi, gli shopping center, prima di essere strutture per la vendita, sono linguaggi di consumo con una grammatica imparata perfettamente dalle persone, educate all’ordine e alla disciplina. (p. 93)
e alle pagine seguenti – da 94 a 98) inorridite leggendo le strategie messe in atto dalla GDO per indurci all’acquisto, guidandoci tra gli scaffali come mansuete mucche ignare):
Negli anni Cinquanta, in un supermercato degli Stati Uniti, venne nascosta una telecamera per registrare i movimenti delle palpebre dei primi consumatori mentre si aggiravano tra gli scaffali: il numero dei battiti scendeva alla media di quattordici al minuto – come nei pesci – facendo precipitare il cliente in una forma di trance ipnotica (p. 96).
Ma non illudiamoci che basti non frequentare un supermercato per essere salvi; come scrive Benjamin Barber a proposito del consumismo eccessivo di un consumatore spesso attirato dall’immagine di una confezione (magari «ecologica»):
Non fatevi ingannare, il consumismo verde è pur sempre consumismo. Si riduce la scatola, ma i prezzi restano inalterati. Il modo più semplice per rispettare l’ambiente è non consumare […].
Non ci viene in mente lo slogan che, a proposito del riciclaggio, recita: «Il miglior rifiuto è quello non prodotto»? Della serie: non è che giacché si ricicla possiamo continuare a comperare l’acqua minerale nelle bottiglie di plastica, neanche se la plastica è bio-qualcosa! O come sta già succedendo, che non ci sono più i sacchetti di polietilene, ma i negozi sono già riforniti di quelli di plastica biologica, ma:
anche la bioplastica ha un impatto ambientale non trascurabile: se in Italia si consumano 4 miliardi di sacchetti ogni anno e per fare 100 bioshopper occorrono mezzo chilogrammo di mais e uno di olio di girasole, ne risulta che4 per convertire l’intero consumo, servono 40mila tonnellate di olio e 20mila tonnellate di mais all’anno […].
Sono stata poi contenta di trovare, alle p.. 122-3, due graziose e precise definizioni di semplicità volontaria e di decrescita, comprese le differenze tra i due pensieri. Ho trovato interessanti (dolorosamente, direi) i dati contenuti intorno alle pagine 131-2 sui danni collaterali della GDO (chiusura di piccoli negozi, aumento delle spese per i consumatori, diminuzione dei guadagni per i coltivatori, scomparsa di aziende agricole… e non posso fare a meno di pensare al fatto che – sono convinta – il lavoro più importante di tutti sia quello del contadino…
Ho scoperto che per magiare il famoso pomodoro di Pachino conviene organizzare una vacanza a Pachino e mangiarlo lì, sul posto, lasciandolo per il resto dell’anno sugli scaffali, visto che il suo prezzo esagerato non ha a che vedere con la qualità (p. 132), anzi! Infine, a p. 137, una brutta notizia (quanto cibo si butta via) è seguita da una buona (il progetto Last Minute Market che ne recupera una parte).
In chiusura, il libro riporta utili tabelle riguardanti la GDO (punti vendita, fatturati, dipendenti, impatto ambientale ecc.), il cibo (quanti chilometri percorre, quanta CO2 produce, quanto costa, quanto se ne butta ecc.) e i libri, con tre pagine di Bibliografia in ordine alfabetico.
Saverio Pipitone, Shock Shopping. La malattia che ci consuma, Arianna, Bologna 2009, pp. 156, € 10,80

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