martedì 27 luglio 2010

anche se con toni ovviamente strumentali riporto questo articolo da Repubblica solo per il dato in sé, ovvero che l'Islanda ormai sia rimasto l'unica nazione a garantire libertà di espressione
A seguito l'articolo di Debora Billi che spiega da dove nasce questa censura e le sue implicazioni
Barbara


Islanda il paese senza bavaglio
di Guido Rampoldi
Una legge per dare ospitalità a tutti i siti web censurati del mondo. Ecco perché Reykjavik ha deciso di sfidare i regimi liberticidi

L´Islanda ha approvato una legge che garantisce uno "scudo" quasi totale a chi metterà su Internet segreti militari, giudiziari, societari e di Stato di pubblico interesse
La giustizia non potrà impedirne la pubblicazione né perseguire e rivelare chi li ha svelati.

Viaggio nel paese che ha deciso di dire di no ai bavagli imposti da tutti i regimi
Il parlamento ha votato a giugno all´unanimità una proposta di una deputata anarchica
I blogger saranno protetti dai processi. "Sarà difesa la libertà d´espressione"
La piccola isola potrebbe diventare il bunker del giornalismo d´inchiesta

REYKJAVIK. Alle tre di quella notte, quando il parlamento è stato chiamato a votare, la deputata anarchica Birgitta Jonsdottir non era affatto certa che la sua proposta sarebbe passata. E un mese dopo ancora si chiede se tutti i colleghi avessero capito l´entità della sfida che la piccola Islanda si impegnava a lanciare all´universo mondo - a Stati di polizia e a compagnie petrolifere, al Pentagono e a grandi banche, giù giù digradando fino all´Italia di Silvio Berlusconi. Ma fosse pure con il contributo di una scarsa consapevolezza, del sonno o della fretta di andare in ferie, sul tabellone elettronico è apparso, ricorda Birgitta, «un mare verde. Approvato all´unanimità. Ero stupefatta». Da quel 16 giugno, un Paese di trecentomila abitanti promette uno scudo quasi totale ai disvelatori di segreti - segreti militari, segreti istruttorii, segreti societari, segreti di Stato.

Se documenti sottratti per un interesse pubblico saranno immessi in Internet da un server con base in Islanda, la giustizia dell´isola non potrà impedirne la divulgazione, tentare di scoprire chi li abbia rivelati, dare seguito a condanne comminate da tribunali esteri in base a leggi contrarie alle norme islandesi. Ancora: se uno Stato o un privato si ritenesse diffamato e ricorresse davanti ad una corte straniera, la società islandese proprietaria del computer (il server) che ha immesso in Rete carte segrete non solo non potrà essere intimidita con la minaccia di quei processi dai costi esorbitanti che stanno costringendo all´autocensura molto giornalismo occidentale, ma sarà autorizzata a rispondere con una contro-citazione davanti ad una corte dell´isola, dichiarandosi vittima di una minaccia alla libertà d´espressione.

Per capire come andrà a finire la sfida islandese occorrerà attendere la normativa d´attuazione (la risoluzione, intitolata Icelandic Modern Media Iniziative, impegna il parlamento a modificare quattordici leggi, tempo previsto: un anno). Stando alle premesse, l´Islanda potrebbe diventare il bunker mondiale del giornalismo investigativo, le Cayman Islands di un´informazione né manipolatoria né omissiva. Ma anche attirare specialisti della disinformazione e mestieranti della calunnia. Potrebbe arretrare sotto l´incalzare di silenziose pressioni internazionali. Oppure restituire la voce agli zittiti - dissidenti, perseguitati, disomogenei. Nel frattempo l´interesse che la deputata Birgitta Jonsdottir ha registrato nel parlamento europeo, soprattutto nel gruppo liberale, suggerisce che l´iniziativa islandese abbia già ottenuto un risultato cospicuo: chiamare alla riscossa contro la massa di divieti, ingiunzioni e intimidazioni che da quasi un decennio sta comprimendo la libertà d´espressione anche negli Stati di diritto occidentali, spesso con il pretesto della lotta al terrorismo.

Per quanto poi riguarda l´Italia, quel che offre l´Islanda già adesso permette di aggirare i divieti che in origine appartenevano alla goffa proposta del ministro Alfano. Nel concreto, chi volesse divulgare intercettazioni dal contenuto significativo non dovrebbe fare altro che mandare le fotocopie del documento originale ad un sito specializzato nella divulgazione di segreti (il più seguito, Wikileaks. org, ora ha la base ufficiale in Islanda). Per posta, ad uno degli indirizzi indicati nel sito Wikileaks; oppure via Internet attraverso il software Tor, gratuito, che costruisce un gioco di carambole tra computer e rende difficilissimo identificare il mittente. Il personale di Wikileaks verificherebbe l´autenticità del documento attraverso i suoi collaboratori in Italia, e tempo qualche giorno o qualche settimana, lo metterebbe in rete. Secondo Smari Mc Carthy, matematico e portavoce di quella Digital Freedom Society che ha avuto un ruolo importante nella formulazione della proposta islandese, «una volta che il documento fosse in Internet, i media italiani potrebbero riprenderlo senza temere ritorsioni». La tesi di Mc Carthy è perlomeno discutibile, ma è meno controverso che non mancherebbero media internazionali disposti a dare pubblicità a ghiotti segreti italici, soprattutto nei Paesi dove l´informazione gode di forti protezioni. Dunque quanto più la legge Alfano tentasse di nascondere, tanto più ostenterebbe scandali e inadeguatezza dell´esecutivo.

Probabilmente lo spettacolo non stupirebbe gli islandesi, cui la tv di Stato in giugno ha raccontato l´Italia attraverso il documentario svedese Videocracy, dove siamo rappresentati da Berlusconi e tali Corona e Mora. «Che disastro, poveretti!», si sente ripetere adesso il giornalista italiano.

A loro volta gli italiani troverebbero un che di familiare nello scandalo islandese che ha prodotto per reazione la Icelandic Modern Media Iniziative.

Agosto 2009: la tv di Stato decide di rendere pubblico un documento bancario da cui oggi molti ricavano che nel privatizzare i due maggiori istituti di credito islandesi, i due partiti di centrodestra se li siano spartiti affidandoli a loro amici, incapaci che li avrebbero comprati con soldi presi a prestito da quelle stesse banche. Poco prima che il servizio vada in onda, la magistratura lo blocca con un´ingiunzione. La tv di Stato obbedisce: ma poco tempo dopo si vendica mostrando la schermata di Wikileaks che ha messo in rete il documento.
Dell´episodio discute la Digital Freedom Society in dicembre, quando riunisce a Reykjavik una compagnia non convenzionale: anarchici islandesi, hackers cosmopoliti, e i fondatori di Wikileaks. Va detto che gli anarchici qui sono persone mitissime (la settimana scorsa facevano scudo alla palazzina del governo bersagliata con sassi da cittadini rovinati dalla crisi finanziaria). E gli hackers nordici tengono a non essere confusi con i crackers, quelli che entrano nei siti per sabotarli o saccheggiarli, o con i vari malfattori che cercano lucri facili in Internet.
Si considerano esploratori dell´ignoto, esteti, «hippies lanciati nel cyberspazio», per citare uno di loro, Mc Carthy, che di nome fa Trifoglio (Smari in islandese: il padre, nato in Irlanda, lo chiamò così perché il trifoglio è il simbolo irlandese). Comunque quella sera due dozzine tra hackers, anarchici e sfascia-segreti di Wikileaks si ritrovano in un pub di Reykjavik e decidono di fondere in un progetto organico le più avanzate tra le norme europee e statunitensi in materia di informazione. Si tratta di invertire una tendenza che non è soltanto italiana. Preoccupa soprattutto la Gran Bretagna, meta preferita di quel "turismo da querela" che promuove la causa lì dove trova la legislazione più favorevole. Secondo Trifoglio Mc Carthy, nei processi per diffamazione la giustizia britannica permette al querelante di infliggere al querelato un processo lungo e spese processuali proibitive (così anche negli Usa: vincere la causa contro Scientology è costato 7 milioni di dollari al settimanale Time). A motivo di questo, molti giornali inglesi stanno cancellando dai propri archivi tutte le notizie controverse, per evitare di essere trascinati in una causa da studi legali collegati a grandi industrie.

«Ma questo vuol dire modificare la storia», segnala Birgitta Jonsdottir. Mentre studia i codici occidentali il gruppo di Reykjavik si trova coinvolto nell´elaborazione di un filmato che un soldato americano ha inviato di nascosto a Wikileaks. Girato dalla US Air Force, mostra un elicottero statunitense fare strage di un gruppo di iracheni inermi scambiati per guerriglieri, e soprattutto, ammazzare intenzionalmente i primi soccorritori, clamorosamente incolpevoli. Non c´è un prima e un dopo, lamenta il ministro della Difesa Gates, volendo intendere: l´episodio è decontestualizzato.

Ma almeno c´è un "in mezzo", gli risponde Wikileaks. Quel che qui conta è che né il filmato né l´arresto del soldato che lo trafugò, tuttora detenuto, hanno trovato sui media americani l´eco che Wikileaks si attendeva. Se ne potrebbe dedurre che qualsiasi cosa scoprano i divulgatori di segreti, se l´argomento non è nell´agenda dei media tradizionali non arriverà al grande pubblico.
Quando gli giro il mio dubbio il portavoce di Wikileaks, Daniel, replica che l´organizzazione non vuole tanto sollevare clamore quanto sottrarre all´invisibilità documenti che potrebbero formare la verità storica. Fondata da un hacker australiano che tuttora viaggia nel mondo con le precauzioni di un ricercato, Wikileaks può avvalersi di 800-1000 collaboratori sparsi in decine di Paesi, con i quali verifica le carte segrete che riceve. Secondo Daniel finora soltanto due sono risultate trappole costruite ad arte (una collegava Obama all´islamismo radicale). In genere Wikileaks non si pone il problema se i segreti divulgati siano d´aiuto a malintenzionati (così l´organizzazione ha pubblicato i test condotti dal Pentagono su apparecchi destinati a prevenire l´esplosione di mine). L´importante, per così dire, è che quei documenti siano agli atti.

Però le protezioni accordate dall´Islanda già nel futuro prossimo indurranno questi o altri cacciatori di segreti a tentare di raggiungere in proprio il grande pubblico. E a costruire archivi nazionali (l´IMMI, ghigna Trifoglio Mc Carthy, potrebbe sdoppiarsi in "Italian modern media initiative") oppure tematici, vuoi per precisare i profili di Corporation che hanno globalizzato anche l´opacità, vuoi per individuarne comportamenti scorretti che al momento sono invisibili. Il progetto è audace, la questione seria. Difficile fare previsioni. Al momento l´unica cosa chiara è che al cospetto dei cybernauti di Reykjavik il povero Angelino Alfano, con le sue pandette e i suoi calamai, fa la figura di un leguleio del Regno delle Due Sicilie.

Repubblica


Il casus belli lo denuncia puntualmente la bravissima blogger Debora Billi
Blog, obbligo di rettifica e cozze avariate.
Debora Billi
"Obbligo di rettifica", si chiama, e impone ai blogger di correggere entro 48 ore (addio weekend al mare!) qualsiasi affermazione salti il ticchio a chicchessia.
Qualcuno lo vede come un miglioramento: prima ci facevano causa, adesso almeno con la rettifica ci sfanghiamo le spese legali. Ma il miglioramento appare minuscolo, rispetto all'immane casino che questa norma può scatenare. Perché, malgrado persino quel che il legislatore può pensare, qui non si tratta di "mettere il bavaglio" per proteggere i politici che le combinano grosse. No no. Non ci credete? Ecco qualche esempio.
Chi, nel suo blog, non ha fatto affermazioni del tipo "il Vaticano protegge i pedofili", oppure "il Comune di Roma è governato da incapaci" o ancora "la Shell è mandante di omicidi in Nigeria" o infine "il partito PXY è un'associazione a delinquere"? Si tratta di linguaggio colloquiale....
, frasi che sentiamo al bar, e che vengono riproposte nei blog esattamente come se si chiacchierasse tra amici. Finora, il Vaticano o la Shell o il Comune di Canicattì non hanno mai avviato costose cause legali per diffamazione, su simili basi; adesso nessuno potrà loro impedire di chiedere rettifica, a meno di dimostrare carte alla mano che la Shell è davvero mandante di omicidi o che il Vaticano, su base processuale, protegge fattivamente i pedofili.
Non succederà? Speriamo. Speriamo di non dover raddoppiare i post per rettificare tutti i giorni.
Succederanno invece anche altre cose più piccole ma, per la libera informazione, altrettanto importanti. Sapete che ci sono stati blogger minacciati o trascinati in tribunale per aver detto che al tale ristorante si mangia male? O che la tale marca di jeans non è affatto made in Italy ma made in Bangladesh? O che la tale azienda mobiliera ritarda con le consegne? O che la tale trasmissione TV è brutta? C'è persino gente querelata dalla Massoneria ...voi ne parlate sempre bene, della Massoneria?
In Rete ci sono migliaia, decine di migliaia di post, magari letti da 4 gatti, che denunciano questo e quello, dalle cozze avariate della pizzeria sotto casa all'amianto nascosto sotto un terreno privato, dall'assessore che va a escort alle scarpe di marca con la colla tossica, dall'omogeneizzato con la carne riciclata all'associazione sportiva che propone il doping ai ragazzini, al supermercato che non fa entrare i bambini down. Finora le denunce sono state 1 su 1 milione, ora chi impedirà al ristoratore imbroglione di costringere all'obbligo di rettifica? La giustizia non ha tempo di indagare su cozze, scarpe e supermercati e il blogger preferisce smentire che passare dei guai. E la prossima voltà parlerà della sua gita al mare, invece che delle cozze avariate.
Siamo abituati a considerare la libertà di stampa e di parola solo come diritto contro i Potenti che ci opprimono, e non pensiamo all'immensa utilità che ha contro i piccoli soprusi di ogni giorno. "E il diritto a non essere diffamati?" tuonerà il solito difensore dell'individuo. Certo: se io racconto alla vicina che la parrucchiera con quei prezzi è una ladra è diffamazione, quindi occorre subito una legge che me lo impedisca, che tutelando la parrucchiera mi impedisca di esprimere la mia opinione anche per strada, al bar, in cortile.
...Vedete, dove siamo paradossalmente arrivati pian piano?
Crisis

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