giovedì 2 dicembre 2010

di Grazia Cacciola
Cari lettori di vivi Consapevole, abbiamo il piacere di pubblicare l'ntroduzione del libro "Scappo dalla città - Manuale pratico di downshifting, decrescita, autoproduzione" (Edizioni Fag Milano, Ottobre 2010) della nostra collaboratice Grazia Cacciola, autrice della rubrica "Piantare e raccogliere" per la nostra rivista. Buona lettura!

Una grande varietà di forze sembrano fare pressione oggi sulle persone: lavoro, risultati, guadagno. Un enorme dispendio di tempo, la gran parte della nostra vita. E’ difficile sfuggire a questi ingranaggi, soprattutto se vi si è nati. Se da piccoli ci voleva un’ora di strada per andare a scuola, da adulti non apparirà strano che ci vogliano due ore per andare al lavoro. Si cerca di piegare mente e fisico alla stanchezza di questi ritmi, allenandoli a sopportarti con l’unico baluardo di un fine settimana riposante o di una serata davanti alla televisione. Cio’ di cui molti non si rendono conto è che il loro tempo di vita vera è quello, il riposo, banale e necessario, dal tempo lavorativo. Nella realtà, non deformata invece da un’organizzazione sociale distorta, il tempo di vita dovrebbe essere maggiore e qualitativamente migliore di quello lavorativo.
Si cita sempre il mito dei paesi del nord Europa dove si è capito da lungo tempo, dove le trentatrentacinque ore settimanali di lavoro non diventano, se non in casi sporadici, le quaranta-quarantacinque più una decina di pendolarismo a cui siamo ormai abituati in Italia. Il risultato è, non a caso, una società più sana, più presente, meno stanca.
La pressione della competizione, i consumi percepiti come necessari, la corsa al lusso, la paura della perdita del lavoro, la sicurezza di uno stipendio, la necessità indotta di dover diventare qualcuno o di realizzare a tutti i costi qualcosa di importante sono falsi miti ai piedi dei quali molti di noi sacrificano tre quarti abbondanti della propria vita, per poi ritrovarsi con ben poco in termini personali.
Una delle grandi realtà di queste ultime generazioni è invece che abbiamo perso l’abitudine di scegliere, il diritto di decidere cosa fare della nostra vita e dove farlo. Certo, scegliamo se fare l’avvocato o il dentista, ma non scegliamo se lavorare o non lavorare. E’ scontato che dobbiamo lavorare, altrimenti non possiamo nutrirci, riscaldarci e prenotare l’iPad.
Ma ne siete proprio sicuri?C’è chi sceglie di vivere in un appartamento e chi in una villetta a schiera, ma non scegliamo il luogo: è il lavoro che lo sceglie per noi. Il lavoro, interpretato da molti come questo grande ostacolo che non gli permette di trasferirsi, che non gli dà tutto quello che vorrebbe, che gli impegna l’ottanta per cento del tempo della vita. La maggior parte vive sognando l’età pensionabile, quando, libera da questo macigno del lavoro, potrà fare tutto quello che le piace (ma scoprirà che la realtà è ben diversa e che a settant’anni sarà ancora inchiodato al suo appartamento cittadino). Scegliamo dove andare in vacanza ma in realtà releghiamo la nostra vita vera nei weekend.
Siamo mossi da un falso mito, quello dello stipendio. Siamo convinti che solo lo stipendio possa farci sopravvivere, che senza saremmo persi, moriremmo di fame e di freddo. Siamo convinti che per avere un kilo di frutta dobbiamo dare in cambio dei soldi, decurtati dal nostro stipendio, proveniente dalla vendita del nostro lavoro a terzi. Non è un grande affare se ci pensate bene. Sul vostro lavoro ci deve guadagnare prima di tutto il vostro datore di lavoro. Sul kilo di frutta che comprate in città ci deve guadagnare il coltivatore, il mediatore, il grossista, il trasportatore, il supermercato. In pratica, tra voi e il vostro kilo di frutta, c’è un esercito da mantenere.
Con il vostro stipendio. Non è un grande affare, no? Non starete lavorando per troppe persone? Ne parliamo nel capitolo 2, dal cambiare mentalità al cambiare, materialmente, lavoro. O ancora meglio, vivere invece di lavorare. Negli anni, dopo aver cambiato completamente il mio modo di vivere e lavorare, ho incontrato molte persone che come me hanno cambiato totalmente vita andando a vivere lontano dalla città e dai suoi ritmi imposti (alcune di queste esperienze le ho raccolte nel capitolo 6). Uno degli aspetti che accomunano queste persone è l’aver cambiato radicalmente la propria mentalità nei confronti del denaro e del lavoro. Sebbene eliminare la dipendenza psicologica dall’entità “stipendio” sia difficilissimo, è pur sempre possibile. In fondo, se vi apprestate a leggere un libro sull’autosufficienza, qualcosa in voi è già cambiato.
In pochi però godono della libertà mentale che porta a decidere per una vita parzialmente o totalmente autosufficiente. Di non avere intermediari tra loro e il kilo di frutta. Alcuni di questi arrivano a questa libertà mentale con una folgorazione e scappano immediatamente dalla città, riconoscendo nel sistema di vita cittadino un grosso limite alla loro vita. Altri ci mettono anni, capiscono esperienza dopo esperienza che qualcosa non va, che qualcos’altro si può cambiare e cominciano ad allontanarsi per gradi.Tutti i metodi sono validi ed è giusto che varino a seconda di aspirazioni e possibilità. Come spiega il capitolo 1, l’aspetto più importante è crederci, solo così comincerà questo percorso, veloce o lento che sia.
Ho voluto raccogliere in questo libro un percorso ideale, dall’idea dell’andarsene dalla città alla gestione del lavoro, alla scelta dell’autoproduzione e dell’autosufficienza fino alla gestione di casa e famiglia in un cambiamento così radicale. Ogni argomento è affrontato sotto diversi aspetti, prendendo in considerazione più scelte possibili e praticabili, aiutandomi in questo con le esperienze mie e delle persone che ho incontrato in una quindicina di anni percorso di allontanamento dalla vita cittadina. Arrivo, non a caso, da Milano, una delle città che sta generando più fuggitivi. Forse i ritmi molto frenetici, senza gli spazi enormi di altre metropoli come New York, riescono a generare di più la voglia di scappare. Ci ho messo anni di lavoro, fatica, sogni e speranze per arrivare a un tipo diverso di vita, non è successo tutto dall’oggi al domani. Ho fatto fatica, come tanti. Ce la sto facendo, come altri che nascono per caso nel centro di una metropoli e un giorno decidono che gli piacerebbe di più fare un’altra vita.
C’è stato un periodo in cui lavoravo contemporaneamente vicino a Viale Cassala, a Sesto San Giovanni e a Busto Arsizio. Ci sono stati giorni che partivo di casa alle 7.00 e rientravo alle 23.00. Altri in cui prendevo un aereo alle 6.00 della mattina e un altro alle 22.00. C’erano domeniche con il brunch sui navigli, happy hour scambiati per cene e guardaroba cambiati ad ogni stagione. C’erano anche i weekend e le ferie in cui relegare la vita vera, che si sono poi trasformati nei momenti in cui pensavo che forse era il caso di cambiare.
Ci sono state un paio di esperienze che mi hanno fatto riflettere molto sui consumi e i bisogni, come una volta che tornando da un viaggio in Mali dove avevamo mangiato per un mese utilizzando una sola padella, ho realizzato che nella mia cucina c’erano ben quindici pentole e almeno cinque elettrodomestici che non usavo da anni. Durante quello stesso viaggio, in cui il bagaglio doveva essere limitato allo stretto indispensabile, ho pensato di avere uno zaino leggero con l’essenziale. Questo finché non mi sono ritrovata in piedi su una sedia con lo zaino in spalla all’aeroporto di Bamako, allagato dallo straripamento del Niger. Dopo due ore, con le braccia indolenzite dal mio “leggerissimo” bagaglio ho iniziato a pensare a cosa realmente avessi bisogno: la metà delle cose che avevo nello zaino. Tornata a casa, sono andata  a un incontro di baratto portando scatoloni pieni di oggetti che non usavo da anni, ho cominciato a fare un orto sul balcone dell’appartamento in cui vivevo e a produrre a poco a poco gran parte delle cose che mi servivano, dal pane a qualche abito. Le basi essenziali dell’autoproduzione sono nel capitolo 3. Lo possono fare tutti.
Davo per scontato che solo disponendo di una quantità notevole di denaro si potesse pensare a lasciare il lavoro e trasferirsi nel luogo preferito, che le case in bioedilizia fossero solo quelle costosissime progettate da architetti famosi. Mi sono ricreduta a Che Shale, in Kenya, dove una designer italiana, stanca dei ritmi cittadini, ha costruito con pochissimi soldi e materiali locali un piccolo albergo di dieci stanze sulla spiaggia in cui non c’è assolutamente nulla in plastica e metallo. Dalla veranda sull’albero, alle camere degli ospiti, tutto è a basso impatto ambientale, compresa la rete fognaria che sfrutta la fitodepurazione con piante locali, fino alla biancheria per gli ospiti, cucita da lei. “Ma non ti senti isolata dal mondo?” le chiedevo perplessa. “No, quando ho voglia accendo il pc, leggo un po’ di notizie, guardo lenovità di design, poi chiudo ed è sufficiente… guarda qui.” Mi indica cinque kilometri di spiaggia dorata e il suo resort a impatto zero, il compagno che sta tenendo lezioni di kitesurf poco lontano. Mi sono allontanata da Milano a piccoli passi. Oggi vivo sull’Appennino Tosco-Emiliano, ho un lavoro indipendente, un orto, sono autosufficiente per molti aspetti e per altri preferisco compiere scelte ecosostenibili delegando la produzione. Non so se domani sarò in una comune autarchica in Umbria o in un ecovillaggio in Spagna o in una eco-casa sulla spiaggia di Shark Bay in Australia. O se sarò ancora in questo posto magnifico perché magari scamperà alla colata di cemento che si sta abbattendo sull’Italia. Di una cosa sono sicura però: non sarò in un condominio in città, non avrò un badge da strisciare tutte le mattine.

Il Consapevole

1 commenti:

  1. Bella immagine. Soprattutto l'apertura di essere ovunque ma non in un ..condominio, in città..
    Ciao

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