venerdì 11 marzo 2011

Questi grandiosi autori, prove alla mano smontano tutti i dogmi liberisti e mercantilistici ai quali, come bravi fedeli, abbiamo consacrato le nostre vite e regalato il futoro delle generazioni, uccidendo il pianeta.
Il dramma è che ad oggi, si insegna nei diplomifici e laurefici questa disciplina autolesionista, invece di aprire le menti delle nuove generazioni che nuoteranno nella fogna che abbiamo loro creato.Che tali luoghi spacciati per templi di cultura (scuola ed università) non siano altro che luoghi per "fabbricare" adepti?
Barbara

Libero scambio, il grande distruttore di David Morris 
 
a seguito " Perché lo sviluppo crea povertà" di Edward Goldsmith

Il libero scambio è la religione del nostro tempo, con il suo paradiso – l’economia mondo – e i suoi fondamenti analitici e filosofici. Per enunciare i suoi teoremi si fa appello alle matematiche superiori, ma, in ultima analisi, il libero scambio è meno una strategia economica che una dottrina morale. Malgrado la sua pretesa di essere esente da giudizi di valore, riposa su di essi, in quanto presuppone che la suprema felicità consista nell’acquistare, che mobilità e cambiamento siano sinonimi di progresso. Il trasporto del capitale, dei materiali, delle merci e delle persone ha priorità sull’autonomia, la sovranità e la cultura delle comunità locali. Invece di favorire e conservare le relazioni sociali che rendono una comunità vivente, la teologia del libero scambio invoca una rigida definizione dell’efficacia come guida della nostra condotta.

I POSTULATI DEL LIBERO SCAMBIO
Dopo tre decenni di lavaggio del cervello, i principi e i pretesi benefici del libero scambio ci sembrano scontati:
• la concorrenza stimola l’innovazione, aumenta la produttività e abbassa i prezzi;
• la divisione del lavoro permette la specializzazione, che ugualmente aumenta la produttività e abbassa i prezzi;
• quanto più importante è la dimensione delle unità di produzione, tanto più grandi sono la divisione del lavoro e la specializzazione, e dunque i loro vantaggi.

Il culto del grande impregna tutto il discorso politico. Il dipartimento del Tesoro preconizza la creazione da cinque a dieci banche americane giganti. “Se vogliamo essere competitivi sul mercato mondiale dei servizi finanziari, dobbiamo modificare le nostre concezioni sulla dimensione delle istituzioni americane", dichiara. Il vice presidente della Citicorp mette in guardia contro “la confortante idea che 14000 banche siano un grande bene per il nostro paese”. La rivista liberale Harper’s condivide pienamente: “Le aziende agricole, come le imprese di quasi tutti gli altri settori, sono cresciute. Lo hanno fatto per trarre vantaggio dalle economie di scala generate dai moderni metodi di produzione”. Lester Thurow, consigliere democratico del presidente americano, stigmatizza le leggi antitrust e le accusa di partecipare di “una vecchia concezione democratica fuori moda”. Egli sostiene che persino l’IBM, il cui volume d’affari è di 50 miliardi di dollari, non è abbastanza importante per il mercato mondiale. “Le grosse società talvolta schiacciano le piccole”, concede Thurow, “ma è meglio che le piccole imprese americane siano schiacciate da grosse imprese nazionali che da ditte straniere”. La rivista In These Times, che si definisce settimanale socialista indipendente, conclude: “Le imprese siderurgiche giapponesi hanno potuto avvantaggiarsi sui loro concorrenti americani costruendo acciaierie di dimensioni più grandi”.
L’infatuazione per le grosse strutture comporta logicamente il seguente postulato: il bisogno di mercati mondiali. Ogni ostacolo all’espansione dei mercati riduce la possibilità di specializzarsi e dunque nuoce alla competitività aumentando i costi.
L’ultimo sostegno del libero scambio è il principio del vantaggio comparativo, che si presenta sotto due forme: assoluta e relativa. La nozione di vantaggio comparativo assoluto è più facile da comprendere: tenuto conto delle loro risorse naturali e dei loro differenti climi, il Guatemala dovrebbe coltivare banane e il Minnesota allevare lucci. Specializzandosi così in ciò che può produrre meglio, ogni regione gode di un vantaggio comparativo in questo ambito. Il vantaggio comparativo relativo è un concetto meno intuitivo, ma in definitiva più fecondo. Nel XIX secolo, David Ricardo, l’economista britannico architetto dell’economia del libero scambio, lo spiega in questo modo: “Supponiamo due uomini che fabbricano ciascuno scarpe e cappelli, uno dei quali supera l’altro nelle due lavorazioni; ma supponiamo che la sua superiorità non sia che di un quinto (20%) nella fabbricazione dei cappelli e di un terzo (33%) nella fabbricazione delle scarpe. Non è forse interesse di entrambi che l’individuo più competitivo si dedichi esclusivamente alla fabbricazione delle scarpe e il meno competitivo alla fabbricazione dei cappelli?”.
Così, anche se una regione è capace di fabbricare tutto più efficacemente di un’altra, ha interesse a specializzarsi negli articoli che produce con maggiore efficacia, in termini relativi, e a scambiarli con gli altri. Ogni regione, e in definitiva ogni nazione, dovrebbe specializzarsi in ciò che fa meglio.
Cosa implicano i principi del libero scambio? Che le regioni e le nazioni abbandonino la loro indipendenza. Che rinuncino alla loro capacità di produrre numerosi articoli per concentrare i loro sforzi solo sulla produzione di alcuni di essi. Che importino ciò di cui hanno bisogno ed esportino ciò che producono.
Più grosso è, meglio è. L’umanità è mossa dall’interesse materiale di ciascuno. La competizione è preferibile alla cooperazione, la dipendenza all’indipendenza. Queste sono le basi del libero scambio. Insomma, barattiamo la sovranità sui nostri affari contro la promessa di più lavoro, di beni e servizi, e di un livello di vita superiore.

Agli occhi dei zelatori del libero scambio, cercare di ostacolare l’evoluzione economica equivale a voler impedire l’evoluzione naturale. Suggerire di scegliere un’altra via di sviluppo è considerato, nel migliore dei casi, come un tentativo di invertire il corso della storia, nel peggiore, come un atto contro natura, se non addirittura un peccato.
Questa forma di determinismo storico ha dei corollari. Non soltanto passiamo da economie semplici ad economie complesse, ma anche da economie integrate ad economie caratterizzate dalla scissione, dove il produttore è separato dal consumatore, il contadino dalla cucina, la centrale dall’apparato elettrico, la discarica dalla pattumiera, il banchiere dal depositante e, inevitabilmente, il governo dal cittadino. In questo processo di sviluppo, dissociamo autorità e responsabilità: coloro che assumono le decisioni non sono quelli che ne subiscono le conseguenze.
Come l’Homo sapiens è considerato il più grande successo della natura, così la società multinazionale o sovranazionale è diventato il nostro animale economico più evoluto. L’economia planetaria esige istituzioni planetarie. Lo stesso Stato-nazione inizia a sparire, tanto come oggetto della nostra affezione ed entità geografica nella quale ci identifichiamo, quanto come importante attore degli affari mondiali.
L’economia planetaria si integra e le nazioni si disintegrano. Yoshitaka Sajima, vice presidente di Mitsui & Company USA, afferma: “Gli Stati Uniti e il Giappone non commerciano più tra loro; fanno parte l’uno dell’altro”. Lamar Alexander, ex governatore repubblicano del Tennessee, esprimeva la stessa idea quando dichiarava che l’obiettivo della sua strategia di sviluppo consisteva nell’“integrare l’economia del Tennessee a quella del Giappone”.
In Europa, il Mercato comune, che negli anni Cinquanta comprendeva sei paesi e dieci negli anni Settanta, oggi ne conta sedici, e le barriere tra queste nazioni sono rapidamente smantellate. Ci sono sempre meno aziende italiane, francesi o tedesche, ma soltanto superaziende europee. I governi degli Stati Uniti, del Canada e del Messico hanno costituito l’ALENA per integrare economicamente i paesi dell’America del Nord.
Stimolare le esportazioni sarebbe indispensabile per il successo di un programma di sviluppo economico.
La globalizzazione mobilita la nostra attenzione e le nostre risorse. Ci si dice che il nostro principale compito è di alimentare, ampliare e gestire i sistemi mondiali emergenti. Tutti discutono di commercio. I dirigenti politici aspirano a creare sistemi stabili propizi ai mercati finanziari mondiali e ai tassi di cambio. Le menti più brillanti di questa generazione fanno appello a tutto il loro ingegno per fissare i principi regolamentari e finanziari che permetteranno di massimizzare un flusso ininterrotto di risorse tra le nazioni.
La globalizzazione modifica i nostri legami e allenta le nostre relazioni di vicinato. “Nel nuovo ordine planetario, nessuna fedeltà lega ai lavoratori, ai prodotti, all’impresa, alla fabbrica, alla comunità e persino alla nazione”, proclama il New York Times. Martin S. Davis, presidente di Gulf and Western, dichiara: “Secondo le nuove regole, ci si può liberare di tutte queste catene. Non possiamo essere affettivamente legati a un particolare fattore di produzione”.
Ormai, siamo tutti fattori di produzione. Gettare alle ortiche i legami di fedeltà non è cosa facile, ma è il prezzo che crediamo di dover pagare per godere dei vantaggi del villaggio planetario. Ogni comunità deve raggiungere il costo di produzione più basso possibile, anche se questo obbliga a rompere ciò che resta del contratto sociale e di secolari tradizioni.
La versione rivista e corretta del sogno americano è chiaramente descritta da Stanley J. Mihelick, vice presidente di Goodyear addetto alla produzione: “Finché non avremo abbassato i salari reali a un livello molto vicino a quelli del Brasile e della Corea, non potremo far godere degli incrementi di produttività i salariati restando competitivi”.
Gli aumenti di salario, la protezione dell’ambiente, il sistema nazionale di assicurazione contro le malattie, le azioni di risarcimento danni, insomma tutto ciò che appesantisce il costo di produzione e rende l’impresa meno competitiva costituisce una minaccia per la nostra economia. Dobbiamo rinunciare a vivere bene per sostenerla. Siamo impegnati in una lotta mondiale per la sopravvivenza, e il libero scambio è divenuto una necessità.

LA DOTTRINA È IN DIFFICOLTÀ
Anche se la dottrina del libero scambio esercita un tale ascendente, le assurdità della globalizzazione diventano palesi. Facciamo l’esempio degli stuzzicadenti e delle bacchette “cinesi”.
Alcuni anni fa, nel ristorante di Saint Paul, nel Minnesota, usai uno stuzzicadenti made in Japan avvolto in della plastica. Il Giappone ha poco legno e niente petrolio. Ciò nonostante, nella nostra economia globalizzata è divenuto abbastanza redditizio trasportarvi piccoli pezzi di legno e barili di petrolio, avvolgere gli uni nei derivati dell’altro e spedire il prodotto finito in Minnesota. Questo stuzzicadenti ha probabilmente percorso più di 80000 chilometri. È vero anche il contrario. Una fabbrica di Hibbing, nel Minnesota, produce ora 1 miliardo di bacchette monouso all’anno, destinate a essere vendute in Giappone. È facile immaginare due mercantili che si incrociano nel nord del Pacifico. Uno trasporta verso il Giappone piccoli pezzi di legno dal Minnesota, l’altro piccoli pezzi di legno dal Giappone verso il Minnesota. Questa è la logica del libero scambio.
La situazione critica nella quale si trovano i paesi del Sud mette molto bene in evidenza la sua assurdità. Sono stati spinti a chiedere prestiti per costruire un’infrastruttura economica allo scopo di specializzarsi nei settori dove hanno maggior successo (in ossequio alla teoria del vantaggio comparativo) e di aumentare così la loro capacità di esportazione. Per rimborsare i loro debiti, i paesi del Terzo Mondo devono incrementare le esportazioni.
Ne è derivato in particolare un vero sconvolgimento della produzione alimentare che, destinata in origine al consumo interno, lo è ora all’esportazione. Così, in Brasile, la produzione di derrate di base (riso, fagioli neri, manioca e patate) per abitante è diminuita del 13% dal 1977 al 1984. Per contro, la produzione a testa di derrate esportabili (soia, arance, cotone, arachidi e tabacco) è aumentata del 15%. Oggi, mentre la metà dei suoi compatrioti soffrono di malnutrizione, un eminente agronomo brasiliano insiste nell’affermare che la crescita delle esportazioni è “una questione di sopravvivenza nazionale”. Nel villaggio planetario, le nazioni sopravvivono affamando le loro popolazioni.
Cosa ne è dei pretesi benefici del libero scambio, in particolare dell’aumento del livello di vita?
Tutto dipende dai criteri presi in considerazione. Le ineguaglianze tra i paesi e, nella maggior parte dei casi, all’interno di essi, si sono approfondite. Due secoli di scambi commerciali hanno accentuato le disparità nei livelli di vita del pianeta. Secondo l’economista Paul Bairoch, nel 1750 il PNL per abitante era approssimativamente lo stesso nei paesi sviluppati e in quelli che non lo erano. Nel 1830, il rapporto era dell’ordine di 1 a 4 in favore dei primi. Oggi, è di 1 a 8. L’ineguaglianza è al contempo la causa e l’effetto della globalizzazione. L’ineguaglianza in un paese accelera la globalizzazione perché riduce il numero di persone con un sufficiente potere d’acquisto; un agricoltore o un industriale deve dunque vendere ai ricchi di diversi paesi per raggiungere la scala di produzione necessaria per ottenere un costo relativamente basso. L’ineguaglianza è anche un effetto della globalizzazione, perché i settori dell’esportazione impiegano pochi lavoratori, che ricevono salari sproporzionatamente più elevati dei loro compatrioti, e perché i paesi sviluppati tendono a far uscire dai paesi del Sud più capitali di quanti ne investono.
Si presumeva che il libero scambio potesse migliorare il nostro livello di vita. Tuttavia, anche negli Stati Uniti, la più sviluppata di tutte le nazioni, ne constatiamo il declino dal 1980. Inoltre, secondo diversi studi, nel 1988 vi si lavorava quasi mezza giornata in più a settimana rispetto al 1970, per un salario reale inferiore. Quanto al tempo libero, chi lavora negli Stati Uniti negli anni Novanta ne ha meno di due secoli prima.

UN NUOVO MODO DI PENSARE
È tempo di rimettere in discussione la validità della dottrina del libero scambio e del suo prodotto, l’economia planetaria. Per questo, dobbiamo cominciare a parlare di valori. Gli uomini sono forse avidi di guadagno e animati da uno spirito di competizione, ma sono anche capaci di cooperare. Diversi studi hanno mostrato che il settore volontario dell’economia è importante e produttivo quanto il settore salariato. Abbiamo trasformato un gran numero di relazioni umane in transazioni commerciali, e ci si può a buon diritto chiedere se questo fosse necessario o positivo.
Non confondiamo cambiamento e progresso. Bertrand Russell ha detto un giorno che il cambiamento era inevitabile e il progresso problematico. Il cambiamento appartiene alla scienza, al progresso, all’etica. Bisogna che decidiamo a quali valori teniamo di più e poi concepire un’economia che li difenda.

I PRESUPPOSTI DEL LIBERO SCAMBIO RIESAMINATI

Poiché si presume che i prezzi ci guidino nei nostri acquisti, le nostre vendite e i nostri investimenti, essi dovrebbero informarci sull’efficacia, che possiamo valutare in funzione delle risorse naturali utilizzate nella fabbricazione dei prodotti e della più o meno grande quantità di rifiuti generati dalla conversione delle materie prime in prodotti intermedi o di consumo. Tradizionalmente, abbiamo misurato l’efficacia in funzione dell’uomo, ossia contando il numero di ore di lavoro necessarie alla fabbricazione di un prodotto. Ma in effetti i prezzi non sono una misura dell’efficacia reale. A dire il vero, non sono la misura affidabile assolutamente di niente. Nell’economia planetaria, i prezzi delle materie prime, della manodopera, del capitale, dei trasporti e della rimozione dei rifiuti sono tutti abbondantemente sovvenzionati. Così, la distanza tra le remunerazioni di una manodopera dalle qualificazioni comparabili è talvolta di 1 a 30 e riesce a spazzare via la nozione di produttività individuale. Un americano può produrre due volte più di un messicano in un’ora, ma è pagato dieci volte di più.
A Taiwan, ad esempio, gli scioperi sono proibiti. In Corea del Sud non si può costituire un sindacato senza l’autorizzazione del governo. In molti paesi in via di sviluppo non esiste né salario minimo, né orario di lavoro massimo, né una legislazione che protegga l’ambiente. Come nota l’economista Howard Wachtel, “le differenze tra costi di produzione dovute a istituzioni politiche totalitarie o a limitazioni dei diritti economici non riflettono alcun vantaggio naturale, alcuna efficacia superiore dell’impresa. Il libero scambio ignora il fatto che delle istituzioni politiche non siano confrontabili, proteggendo i diritti dell’individuo in un paese, negandoli in un altro”.
I prezzi dei beni e dei servizi nei paesi sviluppati sono grandemente falsati dalle sovvenzioni. Le tasse pagate dagli automezzi pesanti non bastano a coprire i danni che infliggono alla rete stradale. Gli agricoltori della California acquistano l’acqua al 5% del prezzo di mercato (il restante 95% è finanziato da enormi sovvenzioni concesse alle grosse aziende). Negli Stati Uniti, la società nel suo insieme sopporta i costi dell’inquinamento agricolo. Dopo essere così intervenuti in diverse maniere nel processo di produzione, ci accorgiamo che costa meno praticare la coltura vicino al punto vendita.
I prezzi non sono indicatori fedeli all’interno di un paese; non bisogna confonderli con i costi. Il prezzo è pagato dall’individuo, il costo è sopportato dall’insieme della comunità. Nei paesi industrializzati, si constata un’enorme disparità tra il prezzo di un bene o di un servizio pagato dall’acquirente e il costo dello stesso bene o servizio che grava sulla società.
Spesso è difficile quantificare i costi sociali, ma questo tuttavia non significa che sono insignificanti. Prendiamo l’esempio del rinnovamento dei centri delle città negli anni Cinquanta e Sessanta. Interi quartieri sono stati spianati per costruire grattacieli e centri commerciali, le tasse fondiarie sono aumentate e si è creduto di aver fatto un buon lavoro. Poi i sociologi, gli economisti e gli urbanisti hanno scoperto che ciò che era stato distrutto non erano quartieri poveri smembrati, ma comunità etniche unite, dove intere generazioni erano cresciute e avevano lavorato, dove i bambini giocavano e andavano a scuola. Se si potessero quantificare la distruzione delle famiglie, le vite spezzate e le spese dell’assegnazione di un nuovo alloggio e della ricreazione di una vita comunitaria, forse constateremmo che la città ha perso. Se utilizzassimo un sistema contabile prendendo in considerazione l’insieme dei costi, forse non ci lanceremmo mai più in tali imprese.
Il nostro rifiuto di comprendere e contabilizzare i costi sociali di certe forme di sviluppo ha causato danni tanto nelle campagne quanto nelle città. Nel 1944, Walter Goldschmidt, lavorando sotto contratto per il ministero dell’Agricoltura degli Stati Uniti, ha paragonato le caratteristiche economiche e sociali di due comunità rurali californiane, simili sotto tutti gli aspetti, tranne uno. Dinuba era circondata da fattorie familiari, Arvin da grosse aziende agricole. Dinuba si è rivelata più stabile, il livello di vita era più alto, le imprese più piccole, il commercio al dettaglio più fiorente, le scuole e altri sefvizi pubblici migliori, la partecipazione dei cittadini agli affari locali più importante. Il ministero dell’Agricoltura invocò una clausola del contratto di Goldschmidt che gli proibiva di divulgare la sua scoperta. Solo dopo circa trent’anni il suo studio fu reso pubblico. Durante questo periodo, il ministero continuò a incoraggiare la trasformazione delle Dinuba del nostro paese in nuove Arvin. La crisi rurale che ora conosciamo ne è la conseguenza.
Gli economisti parlano volentieri di “esternalità”. I costi della dislocazione del mercato del lavoro, dell’aumento della violenza familiare, della disgregazione delle comunità, delle devastazioni ecologiche e della decadenza della cultura sono tutti considerati come “esterni”. Ma esterni a cosa?
La stessa teoria del vantaggio comparativo perde rapidamente la sua credibilità. Ci fu un tempo in cui le tecniche si diffondevano lentamente. Tre secoli fa, nell’Italia del nord, il furto o la divulgazione dei segreti di fabbricazione dei filatoi della seta era un crimine passibile di pena capitale. All’inizio della rivoluzione industriale, la Gran Bretagna proteggeva la sua supremazia nell’industria tessile proibendo sia l’esportazione delle macchine sia l’emigrazione degli uomini che sapevano costruirle e servirsene. Nel 1789, Samuel Slater, un giovane apprendista britannico, importò la rivoluzione industriale negli Stati Uniti emigrandovi dopo aver memorizzato lo schema di un filatoio.
Oggi, i trasferimenti di tecnologie sono semplici. Secondo Dataquest, società specializzata negli studi di mercato, dopo che un nuovo prodotto fabbricato negli Stati Uniti è stato immesso sul mercato, occorrono appena tre settimane perché sia copiato in Asia, fabbricato e spedito in America. Ecco cosa ne è del vantaggio comparativo.

L’EFFICACIA DELLA PICCOLA SCALA
Questo ci porta al problema della scala. Il costo di produzione unitario scende certo in modo spettacolare quando, invece di fabbricare un articolo nella propria cantina, lo si fa in fabbrica. Ma quando quest’ultima moltiplica la sua produzione per cento, il costo unitario non diminuisce proporzionalmente. Il grosso delle diminuzione dei costi si ottiene a un livello di produzione abbastanza modesto.
Nell’ambito agricolo, ad esempio, il ministero dell’Agricoltura americano ha studiato la resa delle aziende agricole e conclude: “Grosso modo, al di sopra di 40000-50000 dollari di vendite, ossia la parte inferiore della forbice delle vendite medie, non ci sono più economie di scala”. Un altro rapporto del ministero conferma: “Le aziende agricole familiari di medie dimensioni hanno una resa analoga alle grandi”.
All’avanguardia delle ricerche in questo campo negli anni Cinquanta, Joseph Bain, professore ad Harvard, ha constatato che fabbriche molto più piccole di quanto si credesse all’inizio erano economicamente concorrenziali. Egli constatò inoltre che si poteva considerevolmente ridurre la loro dimensione senza dover aumentare il prezzo dei prodotti in maniera significativa. In altri termini, è possibile fabbricare scarpe per il mercato regionale quasi allo stesso prezzo unitario del mercato nazionale. Se lo Stato cessasse di sovvenzionare la rete dei trasporti, le scarpe prodotte e commercializzate localmente costerebbero forse meno di quelle importate.
La tecnologia moderna permette a fabbriche più piccole di essere redditizie. Ad esempio, le grandi vetrerie classiche producono tra le 550 e le 600 tonnellate di vetro fluitato al giorno, per un costo annuo di 100 milioni di dollari. Con un investimento di soli 40-50 milioni di dollari, nuove mini-fabbriche sono in grado di produrre 250 tonnellate al giorno per il mercato regionale allo stesso costo unitario delle grandi fabbriche.
L’avvento delle macchine utensili programmabili potrebbe accelerare questa tendenza. Nel 1980, degli ingegneri ne hanno messa a punto una che si può programmare per riprodurre diverse forme: una macchina utensile giapponese è capace di fabbricare quasi cento pezzi di ricambio differenti a partire da uno stesso materiale. Quale conclusione trarne? Erich Bloch, direttore della National Science Foundation, pensa che la fabbricazione “sarà così flessibile che il primo esemplare di un prodotto costerà poco più del millesimo”. “La localizzazione ideale della fabbrica del futuro sarà dunque il mercato dove i suoi prodotti saranno consumati”, dichiara Patrick A. Toole, vice presidente addetto alla fabbricazione presso la IBM. La teoria del “vantaggio comparativo” ha quel che si merita.
Quando rinunciamo alla nostra attitudine a produrre da noi stessi, quando separiamo l’autorità dalla responsabilità, quando coloro che ostentano le nostre decisioni non sono coloro che le prendono, quando il costo e il beneficio della produzione o del processo di sviluppo non entrano nella stessa equazione, quando il prezzo e il costo non vanno più d’accordo, compromettiamo la nostra sicurezza e il nostro avvenire.
Si può argomentare che il libero scambio non è l’unica causa di tutti i nostri mali. Bene. Ma il libero scambio, così com’è predicato oggi, conserva e aggrava molti dei nostri più spinosi problemi. È un’ideologia che incoraggia politiche rovinose. E, quel che è peggio, più andiamo avanti sulla via del gigantismo, della globalizzazione e della dipendenza, più ci è difficile fare marcia indietro e prendere un’altra strada. Se perdiamo le nostre esperienze, la nostra base produttiva, la nostra cultura, le nostre tradizioni, le nostre risorse naturali, se spezziamo i legami di responsabilità personale e familiare, diventerà sempre più difficile ricreare una comunità e rincollare i pezzi.
Ciò vuol dire che dobbiamo agire immediatamente. La mobilità senza ostacoli dei capitali, della manodopera, delle merci e delle materie prime non è il bene sociale supremo. Dobbiamo attaccare frontalmente i postulati del libero scambio, proporre una filosofia differente, adottare una strategia alternativa. Esiste un’altra via. Per seguirla, dobbiamo modificare le regole e rimetterci in discussione. Questo esige non soltanto che mettiamo in dubbio la vuota teoria del libero scambio, ma altresì che avanziamo un’altra idea: quella di un’economia rispettosa della comunità.


Arianna Editrice
Perché lo sviluppo crea povertà
di Edward Goldsmith - 11/03/2011

dal libro Processo alla globalizzazione

Lo sviluppo economico, nonostante i suoi devastanti effetti sulle società e l’ambiente, resta il principale obiettivo delle agenzie internazionali, dei governi nazionali e delle corporazioni transnazionali che sono naturalmente i suoi principali sostenitori e beneficiari. Ciò viene giustificato col fatto che solo lo sviluppo, e ovviamente il libero commercio globale che alimenta, può sradicare la povertà. Oggi quasi nessuno di coloro che occupano posizioni di comando sembra disposto a mettere in discussione questa tesi, sebbene non sia sostenuta da prove teoriche né empiriche, né serie.
Tanto per cominciare, si consideri che poco dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando il commercio mondiale e lo sviluppo economico erano davvero in atto, quello è aumentato di diciannove volte e questo non meno di sei volte – una performance senza precedenti. Appare evidente che se questi processi fornissero veramente la risposta alla povertà mondiale, allora questa dovrebbe ormai essere stata ridotta a poco più di un vago ricordo del nostro barbarico e sottosviluppato passato. Invece, è vero il contrario. In Indonesia, la povertà è aumentata del 50% dal 1997, nella Corea del Sud è raddoppiata durante lo stesso periodo, in Russia è cresciuta dal 2,9% al 32,7% solo tra il 1966 e il 1998¹. Come nota l’International Labour Organization (ILO) nel suo “Rapporto 2000”, praticamente la stessa cosa è successa dappertutto, in Sud America come ai Caraibi. Ciò che soprattutto colpisce è che, secondo l’ILO, la percentuale di reddito globale percepito dal 20% più povero della popolazione tra gli anni dal 1960 al 1977 è diminuita dal 2,3% all’1%, ossia di più della metà, mentre solo negli ultimi cinque anni il numero di persone che vivono in condizioni di povertà estrema nel mondo è aumentato di 200 milioni, principalmente nell’Africa sub-sahariana, in Asia centrale, nell’Europa dell’Est e nel sud-est dell’Asia².
La povertà è aumentata in modo più impressionante anche nel ricco mondo industriale, dove il tasso di disoccupazione tra il 1997 e il 1998 è più che raddoppiato, crescendo dal 2,8% al 6,3% per gli uomini e dal 3,2% al 7,4% per le donne³. Significativamente, la disoccupazione a lungo termine, definita come disoccupazione che dura uno o più anni, è salita in molti paesi molto più rapidamente della disoccupazione totale. In Svezia, ad esempio, è cresciuta dal 5,5% della disoccupazione totale nel 1980 al 20,6% nel 1997(4). Secondo John Carvel, responsabile degli affari sociali di The Guardian, 37 milioni di persone sono attualmente disoccupate nei ricchi paesi industriali, 100 milioni sono senza tetto e quasi 200 milioni hanno una speranza di vita di meno di 60 anni. Persino nel Regno Unito, paese che ha inventato l’industria e dominato la scena economica per decenni, il numero di adulti in famiglie con meno di metà del reddito medio (che è l’indice di povertà preferito oggi in quel paese) – è aumentato di un milione sopra il livello agli inizi degli anni Novanta e il numero è ora più che raddoppiato rispetto agli inizi degli anni Ottanta5.
Per gente ragionevole questi fatti dovrebbero essere abbastanza per screditare la tesi che lo sviluppo fornisce i mezzi, e tanto meno i soli mezzi, per sradicare la povertà. Ma per i sostenitori dello sviluppo ciò ovviamente indica semplicemente che lo sviluppo non ha proceduto abbastanza in fretta. Essi sono semplicemente incapaci psicologicamente di mettere in discussione quello che è il fondamentale principio della religione secolare di oggi. Vinod Thomas, vicepresidente della World Bank’s Education afferma che “per invertire questa tendenza economica lo sviluppo è cruciale”. Egli presenta come modello il sud-est dell’Asia: “Se l’Africa sub-sahariana avesse seguito quel modello nei tre passati decenni, lo standard di vita sarebbe quadruplicato invece di stare ancora appena in piedi, e la povertà sarebbe diminuita, non aumentata”6. Naturalmente, egli non dice che nel sud-est dell’Asia anche la povertà è aumentata durante lo stesso periodo e che solo l’élite ha beneficiato, d’altronde temporaneamente, di un boom economico che era poco più di una bolla, peraltro già sgonfiata.

È significativo che la povertà non sia vista come un problema isolato, ma come la causa di tutti gli altri nostri problemi. Così, la Food and Agricultural Organization delle Nazioni Unite (FAO) insiste nel sostenere che se la gente ha fame è perché è povera e non può permettersi di comprare il cibo di cui ha bisogno, mentre il World Health Organization (WHO) ci assicura altresì che se la gente si ammala e muore giovane è perché è povera e non può permettersi le medicine che la guarirebbe. La risposta sia alla fame che alla malattia è perciò lo sradicamento della povertà, e dunque più sviluppo.

Così la povertà è equiparata al “sottosviluppo”, il che vuol dire che, per definizione, solo lo sviluppo può sradicarla. Nelle condizioni economiche in cui viviamo oggi, questo è probabilmente vero, ma quello che dobbiamo capire è che, definendo in questo modo la povertà, in termini puramente monetari, presupponiamo che il denaro è sempre stato, e sempre deve essere, un requisito - come più chiaramente è oggi - per soddisfare i bisogni reali. Se crediamo questo, comunque, è perché siamo abituati a guardare i crescenti problemi con i quali oggi ci confrontiamo interamente alla luce delle breve e totalmente aberrante esperienza della società industriale in cui viviamo, che ci hanno insegnato a considerare come la norma.

Cos’è allora lo sviluppo? Perché crea povertà?
Ciò che tendiamo a dimenticare è che nelle famiglie e comunità tradizionali, nelle quali abbiamo vissuto per forse il 95% del nostro soggiorno su questo pianeta, si progettavano villaggi, si costruivano case, il cibo veniva prodotto, preparato e distribuito, i bambini erano allevati ed istruiti, ci si prendeva cura di vecchi e malati, si organizzavano e celebravano cerimonie religiose, si svolgevano funzioni di governo – e tutto questo in forma completamente gratuita. Ciò era possibile, come ha notato il grande storico dell’economia Karl Polany, perché in tali società “l’economia era incastrata in relazioni sociali”7. Tutte le funzioni che oggi considereremmo economiche erano compiute per ragioni sociali piuttosto che economiche, principalmente per soddisfare relazioni di parentela e ottenere prestigio sociale.

Lo sviluppo cambia tutto questo, implicando soprattutto il graduale scioglimento dal loro contesto sociale di tutte quelle funzioni prima svolte gratuitamente, la loro monetizzazione e il loro assorbimento da parte dello stato e delle corporazioni. Ci è stato insegnato a vedere questo processo come uno degli accettabili costi del progresso, e per questo pochi sembrano aver considerato le sue reali implicazioni. La prima è che si può predire in anticipo che un ampio settore della società non sarà semplicemente capace di acquistare il denaro per pagare il cibo, la casa e le altre necessità di vita, che sono state monetizzate e che prima erano ottenute gratuitamente attraverso il normale funzionamento di famiglie e comunità. Per questa semplice ragione, lo sviluppo può solo creare un grande numero di poveri e disgraziati, e il loro numero può solo crescere con l’avanzare dello sviluppo, ancor di più diventando quest’ultimo globalizzato.
Ovviamente, siamo stati addestrati a credere che i popoli preindustriali, che vivevano in economie non monetarie, erano poveri – ma questo è semplicemente falso. Questi popoli avevano una vita culturale e cerimoniale ricca, e nel complesso vivevano in un ambiente relativamente non guastato. Di solito, erano anche ben nutriti e in perfetta salute – fino a quando i loro modelli culturali furono scombussolati dalla colonizzazione e più tardi dallo sviluppo economico, e il loro ambiente naturale distrutto. I primi viaggiatori in terre lontane avevano sempre notato quanto in buona salute e ben nutriti fossero i popoli tradizionali da essi visitati. Così, Mungo Park, nel suo Travels in Africa, ci dice che il fiume Gambia abbonda di pesci e che la natura “con mano generosa” ha dato agli abitanti della zona “le benedizioni della fertilità e dell’abbondanza”8. Poncet e Brevedent, due viaggiatori francesi dell’Ottocento, notarono che l’area di Gezira, in Sudan, ora occupata da erosi campi di cotone, era un tempo coperta di foreste e “piante fruttifere e ben coltivate”, e che era chiamata Terra di Dio (Belad-Allah) “per la sua grande abbondanza”9. Ne vi è ragione di supporre che gli aborigeni australiani, oggi considerati i più poveri tra i poveri, fossero sempre a corto di cibo. Sir George Grey, governatore generale della Nuova Zelanda nella prima metà del XIX secolo, ha trascorso molto tempo in mezzo a loro e ha sostenuto di aver sempre trovato la più grande abbondanza nei loro rifugi. Molti moderni antropologi hanno notato quanto fossero in buona salute e ben nutriti i popoli tribali, con cui vivevano, e come la loro alimentazione e il loro stato di salute si deteriorassero non appena adottavano lo stile di vita dei loro colonizzatori.
R.R. Thaman dell’University of the South Pacific, ad esempio, osserva che prima del contatto con gli europei, gli abitanti della Melanesia, Polinesia e Micronesia, avevano generalmente abbondanti risorse di cibo, ed erano quasi universalmente riconosciuti per essere popoli dal superiore tipo fisico, robusti e in buona salute. Anche quegli atolli e isole calcaree coralline dove il cibo era relativamente scarso “avevano frutti degli alberi del pane, noci di cocco, pandano, spesso taro, una varietà di piante selvatiche commestibili e ricche risorse marine. Gli ultimi anni, comunque, hanno visto un drammatico deterioramento della salute degli abitanti delle isole del Pacifico. La crescente tendenza verso un’alimentazione in stile occidentale ha portato con sé un aumento nell’incidenza delle cosiddette malattie della civiltà, in particolare malattie cardiache, carie e diabeti – malattie quasi sconosciute pochi decenni fa. In Micronesia il numero di persone curate per malattie cardiache nei locali ospedali è triplicato tra il 1958 e il 1972 – un incremento spiegabile con i cambiamenti nell’alimentazione e lo stress della vita moderna”10. Innumerevoli altri studi nelle isole del Pacifico e in ogni altra parte del mondo dipingono lo stesso quadro11.

In altri termini, i popoli tribali e gli altri popoli tradizionali non avevano bisogno di sviluppo economico e del denaro che esso fornisce per essere in buona salute e ben nutriti. Molto significativamente, l’edizione 2001 del World Development Indicators (WDI) della Banca mondiale mostra Cuba – il solo paese in via di sviluppo, ad eccezione della Corea del Nord, che dal 1960 non ha ricevuto prestiti della Banca mondiale, e che ha avuto una crescita economica “anemica”, in testa a tutti gli altri paesi poveri nelle statistiche relative alla salute e all’istruzione. Persino Joe Ritzen, vice presidente della Banca per la politica di sviluppo, non può evitare di restare impressionato. Egli nota che il sistema cubano “è estremamente produttivo nei settori sociali”, ma non può non osservare criticamente che esso non dà alla gente occasioni di prosperità. Ma gli si potrebbe chiedere, quale uso si fa della prosperità, se ha “un effetto negativo nei settori sociali”?12.
Ciò che è importante è che questi popoli preindustriali non si sentivano poveri. Quando Laurens van der Post volle fare un regalo agli amici boscimani presso i quali aveva soggiornato, come segno della sua gratitudine per la loro ospitalità, semplicemente non sapeva cosa dare loro.
Eravamo umiliati dalla consapevolezza di quanto poco potessimo dare ai boscimani. Quasi ogni cosa, probabilmente, sembrava rendere loro la vita più difficile, aumentando i rifiuti e il peso della loro routine quotidiana. Non possedevano praticamente beni: una cinghia, una coperta e una cartella di cuoio. Non c’è niente che non potessero assemblare in un minuto, riporre nelle loro ceste e trasportare sulle loro spalle per un viaggio di mille miglia. Non avevano il senso del possesso13.
Etichettarli come completamente poveri equivale a non cogliere l’essenziale, per i boscimani, che vivevano nel loro ambiente naturale, e non si sentivano in alcun modo sventurati per la loro mancanza di beni materiali. Helena Norberg-Hodge, che ha trascorso molto del suo tempo durante gli ultimi trent’anni in Ladakh, una società tibetana sull’Himalaia che politicamente appartiene dell’India, e che fino ad epoca recente era in gran parte isolata dal mondo esterno, è pienamente d’accordo. Quando per la prima volta si recò in Ladakh, alla metà degli anni Cinquanta, racconta come un giovane ladakho le fece visitare il suo lontano villaggio chiamato Hemis Shukpachan. Ella rimase impressionata dalla bellezza e spaziosità delle case. “Ma dove vivono i poveri?” chiese. Egli restò sbalordito da questa domanda. Quando spiegò cosa intendeva per povero, egli scosse la testa e rispose: “Non abbiamo nessuno così”. Oggi, tutto è cambiato. I ladakhi si affollano intorno ai turisti chiedendo denaro – “siamo così poveri in Ladakh”, dicono loro pietosamente14. Essi infatti sono stati ridotti in povertà dal recente sviluppo economico che ha già devastato la loro società e il loro ambiente naturale e creato i molti nuovi e artificiali “bisogni” che, per la maggior parte della gente, non potranno mai presumibilmente essere soddisfatti.
Essi erano differenti persino alla corte degli imperatori cinesi della dinastia Manciù, prima che quel paese subisse l’influenza occidentale. Così, l’imperatore Ch’ien Lung non fu minimamente impressionato dai manufatti regalatigli dall’emissario britannico di re Giorgio III, che cercava di stabilire rapporti diplomatici con il suo paese. Egli rigettò la richiesta britannica e spedì una lettera a re Giorgio che si concludeva con le seguenti parole:
Dominando il vasto mondo, mi prefiggo di mantenere una perfetta amministrazione e di soddisfare le funzioni statali. Oggetti strani e costosi non mi interessano… Come il vostro stesso ambasciatore può vedere, abbiamo ogni genere di cose. Io non do valore a oggetti strani o ingegnosi, e non intendo usare i manufatti del vostro paese15.

Questo atteggiamento non potrebbe esserci più estraneo. Il nostro appetito di beni materiali e congegni tecnologici sembra insaziabile. Infatti, la nostra ricchezza e il nostro benessere sono normalmente valutati sulla base del nostro accesso ad essi. È senza alcun dubbio vero che oggi abbiamo bisogno di molti beni materiali e apparecchi tecnologici, ma non perché ne abbiamo un’intrinseca necessità, bensì perché, nelle aberranti condizioni nelle quali viviamo, molti sono richiesti allo scopo di soddisfare necessità biologiche, sociali, spirituali ed estetiche che in normali condizioni erano una volta soddisfatte gratuitamente.

Nessuna parola per indicare la povertà
Serge Latouche, che ha a lungo lavorato tra i quartieri poveri rapidamente sviluppati delle città dell’Africa occidentale, ci racconta, nel suo istruttivo libro L’altra Africa, che nelle principali lingue africane addirittura non c’è una parola per povertà, almeno nel senso economico del termine, che egli vede come un’invenzione occidentale. Le più vicine sono le parole che indicano un “orfano”16. Marshall Salins fa la stessa osservazione nel suo citatissimo saggio The Original Affluent Society.
I popoli più primitivi del mondo possiedono pochi beni, ma non sono poveri. Povertà non significa avere pochi beni, né è propriamente una relazione tra mezzi e fini; è soprattutto una relazione tra persone. La povertà è uno stato sociale. Come tale, è un’invenzione della civiltà”17.
In questo senso, la povertà non è associata a una mancanza di denaro, ma piuttosto all’assenza di un rapporto sociale. Per Latouche, la vera idea di povertà è concepibile solo in una società individualistica, come quella che lo sviluppo necessariamente provoca. Si riferisce soprattutto all’impotenza del sociale isolato.
“In una società non-individualistica”, ci dice Latouche, “il gruppo nell’insieme non è né ricco né povero”18. Julius Nyerere diceva grosso modo la stessa cosa. Per lui, “in una società africana… nessuno soffriva la fame, o di cibo o di dignità umana, perché privo di ricchezza personale; ciascuno dipendeva dalla ricchezza posseduta dalla comunità della quale era membro19.
Molti di coloro che nel mondo moderno sono economicamente poveri sono anche quelli che hanno un sostegno familiare minimo. Si può includere in quest’ambito il crescente numero di anziani in gran parte abbandonati dalle loro famiglie e dipendenti da una miserabile pensione statale appena sufficiente per sopravvivere. Possiamo altresì includere molte madri separate e i loro bambini. Nel 1974, il noto psicologo infantile Bronfenbrenner osservava che del “numero di bambini statunitensi sotto i sei anni che vivevano in povertà, il 45% di loro erano membri di famiglie di genitori separati”20.
In Australia, Canada, Germania, Lussemburgo, Olanda, Norvegia e Usa, le imposte comunali di povertà per famiglie guidate da una madre separata sono almeno tre volte più alte che per due genitori non separati. Da allora la situazione è peggiorata, cosa pienamente prevedibile, dal momento che lo sviluppo economico, per sua stessa natura, porta necessariamente alla disintegrazione sociale e all’atomizzazione. Negli Stati Uniti, ad esempio, il numero di famiglie guidate da una donna separata è aumentato di due volte e mezzo, nel Regno Unito di circa tre volte e in Canada è quasi raddoppiato21.
Non è sorprendente che la povertà infantile nei paesi dell’OCSE sia in generale sostanzialmente cresciuta durante lo stesso periodo. Tra il 1972 e il 1994, ad esempio, è raddoppiata in Germania e triplicata nel Regno Unito22. La povertà ha anche un’importante componente psicologica cui il sociologo francese Emile Durkheim si è riferito parlando di anomia – termine adottato da altri eminenti sociologi come Robert McIver. Secondo quest’ultimo, le persone soffrono di anomia “quando le loro vite sono vuote e senza scopo, prive di significative relazioni umane”23.
È nei quartieri poveri delle città industriali moderne che la disintegrazione e la privazione sociale o anomia che essa determina è più avanzata, e questo causa una forma di povertà largamente assente nelle società tradizionali, e che sotto certi aspetti è persino meno tollerabile di quella che esiste nei quartieri poveri delle città del Terzo Mondo come Calcutta.
Come dice Robert Wurmstedt, “la povertà nei vicinati neri portoricani nella parte ovest di Chicago è peggiore di ogni povertà che ho visto in Africa occidentale. Qui la gente è guidata da forti valori tradizionali. Non vive nella costante paura della violenza, degli animali nocivi e del fuoco. Non troviamo lo stesso senso di disperazione e mancanza di speranza di un ghetto americano”24.
Una delle molte ragioni per cui lo sviluppo causa disintegrazione sociale e anomia è che, essendo sempre di più assunte dallo stato e dalle corporazioni le funzioni chiave un tempo compiute dalle famiglie e dalle comunità, questi elementi sociali chiave semplicemente si atrofizzano, come muscoli a lungo non utilizzati, e così, tra l’altro, la gente viene privata di quella che è di gran lunga la più umanitaria e affidabile delle fonti di sicurezza. La massa delle persone nel mondo industriale non se ne rende conto. Per acquisire sicurezza, contano su investimenti personali, sul proprio lavoro e sullo stato sociale. Tuttavia, nel contesto dell’economia altamente instabile che abbiamo creato, gli investimenti sono assai speculativi, come vediamo oggi con il massiccio crollo nelle azioni tecnologiche e con il collasso delle economie asiatiche nel 1997 e all’inizio del 1998. E soprattutto, con l’odierna economia globale c’è ora una spietata concorrenzialità, il che significa che le corporazioni, per sopravvivere, debbono ridurre i costi all’osso, e questo comporta, tra l’altro, che il lavoro deve essere “flessibile”, per cui i contratti a lungo termine sono stati sostituiti da contratti a breve termine, molti lavori a tempo pieno sono diventati a orario ridotto, ed è sempre più semplice e persino meno caro licenziare impiegati quando risulta conveniente farlo. Il lavoro così si precarizza sempre di più, mentre al contempo lo stato sociale, per ridurre di nuovo i costi dell’industria, viene sistematicamente smantellato. Poiché questo processo riguarda un grande numero di persone che vivono in una società sempre più disumana e sempre più priva del sostegno della famiglia e della comunità, esse si troveranno praticamente sprovviste di ogni forma di sicurezza e con ciò confluiranno nella proliferante moltitudine dei poveri e degli indigenti. Tuttavia, la povertà odierna non è niente paragonata a quello che sarà quando le ciniche politiche di sviluppo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) verranno pienamente realizzate.
L’Accordo Generale sul Commercio e i Servizi (GATS) del WTO, relativo appunto a tutti i servizi statali, copre ogni aspetto della cura della salute, dell’istruzione primaria, secondaria e universitaria, i servizi idrici e ambientali; in esso sarebbero inclusi anche la ricerca e il controllo ambientale. Per le corporazioni transnazionali questa è ovviamente una fantastica cuccagna, è stato loro assegnato un colossale nuovo mercato da sfruttare, con l’istruzione, la salute, e la sola acqua che rappresenta un mercato di 5-6 miliardi di dollari25. Questo significa che proprio tutti i servizi che lo stato in origine prendeva in consegna dalle comunità locali, e che erano largamente sovvenzionati dal pubblico e potevano essere gratuitamente forniti ai bisognosi, sarebbero ora tutti gestiti da enormi e totalmente irresponsabili corporazioni transnazionali che farebbero pagare per essi il prezzo massimo possibile – creando un numero senza precedenti di poveri specialmente nei paesi del Terzo Mondo, che con ciò sarebbero privati dell’accesso alle fondamentali esigenze della vita.
Ma questo non è tutto; in conformità con le regole del WTO, i mercati sono stati ovunque nel mondo aperti ai molto sovvenzionati prodotti alimentari statunitensi. Ciò è già iniziato in India, con risultati devastanti. Da qualche parte ci sono due-tre milioni di piccoli agricoltori in India, Cina, Indonesia, Tailandia, e in altre zone dell’Asia del sud e di sud-est, dove la dimensione media di una fattoria è solo di pochi acri. Pochi probabilmente per sopravvivere all’apertura dei loro mercati – pochi anche per artigiani, piccoli negozianti e venditori ambulanti che dipendono interamente dall’agricoltura comunitaria. La maggior parte di queste persone sfortunate saranno costrette a cercare rifugio nei quartieri poveri delle più vicine conurbazioni e, senza terra su cui far crescere il loro cibo, senza lavoro – dato che il livello di disoccupazione in questi quartieri poveri è già spaventoso – e senza sussidi di disoccupazione, saranno ridotti in uno stato di totale indigenza.
Ma il principale contributo dello sviluppo economico all’aumento della povertà nel mondo è la produzione di sempre più grandi quantità di gas responsabili dell’effetto serra che causano il riscaldamento globale. Questo è di gran lunga il maggiore problema che l’umanità abbia mai affrontato, ed infatti se non invertiamo rapidamente questo processo totalmente distruttivo, molta parte del nostro pianeta sarà presto largamente inabitabile con sempre più gravi ondate di calore, alluvioni, siccità, tempeste, aumenti dei livelli marini, che determineranno massicce migrazioni di profughi impoveriti e quasi morti di fame attraverso la superficie del nostro pianeta. Se dunque continueremo a non fare nulla a questo riguardo, lo sviluppo avrà effettivamente eliminato la povertà, dato che il mondo diventerà totalmente inabitabile e gli esseri umani, ricchi o poveri, saranno incapaci di sopravvivere26.

NOTE
1.Chakravarthi Raghavan, Third World Network feature, Ottobre 2000.
2.International Labour Office (ILO), World Report 2000.
3.ILO 1997a e OECD 1999, cit. in ILO World Report 2000.
4.ILO 1999b
5.John Carvel, Social Affairs Editor, The Guardian, 11 dicembre 2000.
6.Vinod Thomas, The Economist, 7 ottobre 2000.
7.Cfr. Karl Polanyi, The Great Transformation, Beacon Press, Boston 1957 (ed. or. 1944).
8.Mungo Park, “Travels in the Interior of Africa”, Folio Society, London 1984 (ed. or. 1799), p. 5.
9.Nigel Pollard “The Gezira Scheme: A study in failure”, The Ecologist, vol. 11, n° 1, 1981, pp. 24-31.
10.R. Thaman, “Food Scarcity, Food Dependency, and Nutritional Deterioration in Small Island Communities”. Saggio presentato al 49° ANZAAS Congress and Tenth New Zealand Geographical Conference, Auckland, Nuova Zelanda. Simposio su “Problems and resource use and development in small islands of the Pacific”, 24 gennaio 1979.
11.Cfr. Albert Damon, pp. 216-291. Cfr. p. 481 The Way, US edition. Cfr. anche Ian Prior et al. 1987, “Migration and gout: The Tokelau Islands Migration Study”, British Medical Journal, 22 agosto. The Way, p. 494.
12.World Bank.
13.Laurence Van der Post, “Venture into the Interior”, p. 278, Hogarth Press 1958.
14.Helena Norberg-Hodge, “Ancient Futures: Learning from Ladakh”, Rider Books, London 2000.
15.Ch’ien Lung, 1934, cit. da Arnold Toynbee in “A Study of History”, p. 161, Royal Institute of International Affairs, London.
16.Serge Latouche, L’Autre Afrique, p. 99.
17.Marshall Sahlins, “The Original Affluent Society”, Stone Age Economics, Aldine, New York, 1972.
18.Serge Latouche, ibid., p. 105.
19.Julius Nyerere Ujaama, “The Basis of African Socialism”, in Ujaama: Essays on socialism, Oxford University Press, Dar es Salaam 1968.
20.Urie Bronfenbrenner, “The Origins of Alienation”, Scientific American, Agosto 1974.
21.International Labour Office (ILO) 2000, p. 43.
22.OECD 1997a e OECD 1999) – in ILO 2000, p. 43.
23.Robert McIver, 1964, “The Ramparts we Guard”, Mcmillans, New York, p. 242.
24.Robert Wurmstedt, cit. da E. Goldsmith, “The Way: an Ecological World View”, University of Georgia Press 1998.
25.Cfr. Agnes Bertrand e Laurence Kalafatides, “The World Trade Organisation and the Liberalisation of Trade in Healthcare and Services”, in Edward Goldsmith and Jerry Manders Editors, “The Case Against the Global Economy and for a Turn Towards Localisation”, Earthscan, London 2001.
26.Cfr. “The Ecologist”, marzo 1999, numero speciale sul cambiamento climatico, e “The Ecologist”, novembre 2001, secondo numero speciale sul cambiamento climatico.



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