lunedì 12 novembre 2012

Il calciatore Mahmoud Sarsak: dalle prigioni israeliane al Diritto, per difendere il suo popolo

Di Angela Lano, da Tunisi. Mahmoud Sarsak ha 24 anni, ma sembra ancora più giovane. Come tanti suoi coetanei ha subito l’ingiustizia del carcere israeliano, senza capi di accusa, senza processo, soltanto per il suo “essere palestinese”. E senza avvocato, perché non esistendo accuse, chi è in detenzione amministrativa non ha neanche il diritto ad avere un legale. E’ un’altra beffa israeliana.
Di professione fa il calciatore, ed è famoso. Ma la cronaca dell’ultimo anno non l’ha visto impegnato in un campo sportivo, bensì in un duro sciopero della fame contro la detenzione amministrativa comminatagli dopo l’arresto, avvenuto nel luglio del 2009, mentre si recava a giocare in una squadra di Nablus. Anche lui è diventato uno dei tanti “ostaggi” israeliani. Tali sono, infatti, i prigionieri politici palestinesi.
E’ stato liberato a luglio del 2012, dopo 96 giorni di sciopero della fame. Attualmente vive a Tunisi, dove sta studiando Diritto, si sta curando e si sta
allenando nella squadra dell’African Club (Club Ifriqiya).
Lo abbiamo incontrato durante le giornate dedicate alla Conferenza internazionale sui prigionieri palestinesi, e gli abbiamo rivolto alcune domande.
Come ha fatto a resistere a oltre tre mesi di sciopero della fame?
“Mi ha sorretto la fede in Dio. La fonte della mia energia era questa. Sapevo che avrei superato quel periodo duro. Mi mancavano la mia famiglia, gli amici, ma ero sicuro che ce l’avrei fatta. Sono stato sette mesi in isolamento, e qui ho iniziato lo sciopero della fame, limitandomi a bere acqua. All’inizio ero imprigionato nel deserto del Negev, poi mi hanno trasferito in altre carceri. Ne ho cambiate tante: durante lo sciopero mi spostavano continuamente. Nel frattempo, anche altri prigionieri hanno iniziato la stessa protesta”.
Era informato sugli altri prigionieri?
“Subito, no. All’inizio si è trattato per tutti noi di proteste individuali, poi è nata un’organizzazione, attraverso un Comitato. C’erano due momenti nella giornata in cui riuscivamo a comunicare: al mattino e alla sera. E c’era un coordinatore che ci visitava periodicamente, accompagnato da una guardia”.
Sul suo caso c’è stata molta attenzione mediatica. Come mai?
“Il mio caso era un po’ speciale. Avevo ottenuto un passaporto per spostarmi dalla Striscia di Gaza, dove vivo, alla Cisgiordania, per giocare. Inoltre, mio fratello è un operatore dei media, quindi la mia famiglia è stata in grado di preparare la campagna in mio sostegno. Poi, come calciatore ero conosciuto.
“Purtroppo, certi media vogliono l’esclusiva del ‘caso’ e ostacolano la circolazione delle informazioni sui prigionieri e le loro proteste, per avere il controllo della notizia. Il movimento dei prigionieri è unito e non tiene conto delle differenze politiche, ma i mezzi di informazione parlano solo dei ‘loro’ prigionieri, cioè di quelli del loro partito, o fazione, e non degli altri. Anche questo non aiuta una campagna efficiente e capillare sulla situazione dei detenuti palestinesi”.
Ritiene lo sciopero della fame un mezzo valido di protesta da parte dei prigionieri palestinesi?
“Sì, è lo strumento migliore, e l’unico, per far conosce la situazione dei detenuti. Al di fuori, si deve parlare di questa questione sempre, non solo ogni tanto. Bisogna creare comitati, fare eventi, campagne, educare la gente, informarla.
“Ci sono tanti prigionieri ancora in sciopero della fame, e bisogna darne notizia. Inoltre, pochi sanno della politica israeliana di trattenere le salme di certi detenuti – ‘il cimitero dei numeri’ – sostenendo che sono ancora vivi, in ostaggio. E’ una forma di tortura psicologica per le famiglie”.
Poi ci sono i casi dei prigionieri liberati nell’ambito dello “scambio Shalit” e ri-arrestati. Anche di questi si parla ben poco…
“Sono circa una trentina. Tra questi c’è Hanan Shalabi, che ha ripreso lo sciopero della fame. Ci sono poi casi gravi, come quello di Riyadh Laamour, di 23 anni, imprigionato all’età di 15 e condannato all’ergastolo per resistenza all’occupazione. Ha un cancro allo stomaco ed è in condizioni critiche…”.
Quali sono i suoi programmi per il futuro?
“Mi sto curando e mi allenerò qui in Tunisia. Ma un altro obiettivo è lo studio del Diritto: voglio diventare un attivista dei diritti umani e difendere il mio popolo”.

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