mercoledì 20 marzo 2013

Senza dimenticare il Mali e la Costa d'Avorio appena riconquistate dalla Francia. Iran e Corea del Nord sotto costante minaccia. I palestinesi intanto accolgono Obama come merita.
Barbara

Siria, L'UE è costernata per il deterioramento della situazione 


Iraq. La guerra è costata più di 2mila miliardi
Uno studio calcola i costi dell’invasione Usa 


F.C.

Che gli Stati Uniti abbiano guadagnato molto poco dalla guerra in Iraq, a fronte di spese enormi, mentre l’Iraq ne è uscito traumatizzato, non è certo una novità. Tuttavia uno studio pubblicato a pochi giorni dal decimo anniversario dell’invasione Usa ha cercato di quantificare numericamente i costi sostenuti dagli Stati Uniti in questa disastrosa guerra voluta da George W. Bush contro Saddam Hussein. Secondo i 30 accademici ed esperti del Watson Institute for International Studies della Brown University, nello Sato di Rhode Island, il costo diretto per le casse statunitensi è stato di 1.700 miliardi di dollari, cui vanno ad aggiungersi altri 490 miliardi in indennità per i veterani. 
Una cifra che, con gli interessi, nei prossimi 40 anni potrebbe lievitare fino all’incredibile cifra di 6mila miliardi.
Per fare un paragone, basti pensare che i famigerati “sequester”, i tagli trasversali e automatici che si abbatteranno sulla spesa statunitense (con pesanti conseguenze su tutti i settori, dalla Sanità alla Difesa), nei prossimi dieci anni non supereranno i 1.200 miliardi di dollari.
Dal punto di vista umano, la guerra ha causato la morte diretta di 134mila civili. Se a questi si aggiungono militari, giornalisti e operatori umanitari, le perdite sono comprese tra i 176mila e i 189mila. Inoltre si stima che il conflitto abbia contribuito alla morte di oltre 500mila persone.
Il rapporto arriva alla conclusione che gli Stati Uniti hanno guadagnato molto poco dalla guerra, mentre l’Iraq è stato traumatizzato: i militanti islamici sono aumentati in tutta la regione, i diritti delle donne peggiorati, e il già vacillante sistema sanitario è stato indebolito. Questo nonostante i 212 miliardi di dollari stanziati da Washington per la ricostruzione. Gran parte di quel denaro, infatti, è stato speso per la sicurezza o è andato perduto in frodi.


16 Marzo 2013  Rinascita

Nella Libia che piace tanto all'agente NATO Laura Boldrini:
Economia diretta dal FMI, nuove concessioni petrolifere alle compagnie straniere ESENTASSE.
Certo certo, per i diritti umani del PROFITTO GLOBALE

La Libia cerca di rinascere dal petrolio

L’economia libica ha registrato una ripresa record trainata dalla produzione petrolifera, ma violenze e scioperi minacciano lo sviluppo 

Ferdinando Calda

Dopo il brusco rallentamento causato dalla guerra civile del 2011, l’economia libica sta ripartendo di slancio, trainata dalla ripresa della produzione petrolifera, lanciata verso cifre da record. Lo sottolinea l’ultimo rapporto del Fondo monetario internazionale (Fmi), secondo il quale nel 2012 l’economia della Libia è cresciuta di oltre il 100 per cento rispetto all’anno precedente. Ma rimane la sfida della transizione politica e della sicurezza, che continua a preoccupare il governo di Tripoli, comincia a impensierire le compagnie straniere e mette a rischio la ripresa economia del Paese. Sabato scorso il governo libico ha dato il via all’ennesima operazione per smantellare le milizie armate “illegali”, ma il compito si prospetta piuttosto arduo. “Useremo la forza e ci saranno degli scontri armati”, ha anticipato il ministro dell’Interno libico Ashur Shuwail.
Secondo quanto dichiarato dal capo del team di osservazione dell’Fmi, Ralph Chami, che si recato in Libia dal 20 febbraio al 7 marzo, gli ultimi indicatori economici “mostrano una ripresa della produzione di idrocarburi entro la fine dell’anno e un pieno recupero dei settori economici non legati agli idrocarburi nel 2014”. Anche l’inflazione, “che nel 2011 è salita vertiginosamente al 16 per cento, è calata al 6 per cento nel 2012” e si prevede un’ulteriore riduzione nel corso del 2013. L’economia della Libia rimane comunque fortemente legata al petrolio e al gas, che rappresentano oltre l’80 per cento del Pil del Paese e sino al 97 per cento dei suoi proventi derivanti dalle esportazioni.
Potendo contare sulle riserve petrolifere più ingenti di tutta l’Africa, Tripoli punta a incrementare enormemente la propria produzione per far ripartire l’economia. L’obiettivo, annunciato a gennaio dal ministro del Petrolio libico Abdulbari Al-Arussi, è di arrivare alla quota record di due milioni di barili al giorno entro i prossimi due anni, superando quindi i circa 1,6 milioni prodotti prima della guerra della Nato contro Gheddafi. Indispensabile a questo proposito sarà il supporto delle compagnie straniere. La scorsa settimana lo stesso Al-Arussi ha annunciato la decisione di Tripoli di offrire nuove concessioni petrolifere – le prime negli ultimi 6 anni – entro la fine del 2013. “Abbiamo bisogno ancora di un po’ di tempo”, ha riconosciuto il ministro, assicurando però che “nella parte finale dell’anno completeremo i nostri studi e annunceremo i nuovi accordi per le concessioni, considerata la grande richiesta delle compagnie straniere che vogliono lavorare in Libia”.
In precedenza Al-Arussi aveva annunciato che il governo libico stava esaminando la possibilità di concedere l’esenzione dalle tasse per almeno cinque anni alle aziende del Golfo Persico intenzionate a investire in Libia insieme a un partner locale. Allo stesso tempo Tripoli chiederà all’Organizzazione dei Paesi produttori di petrolio (Opec) un innalzamento della sua quota di produzione petrolifera, da 1,5 milioni di barili al giorno a 1,7, giustificando questa richiesta con la necessità di produrre di più per finanziare la ricostruzione delle infrastrutture di base distrutte nel corso del conflitto.
In questo contesto di crescita la vera sfida per Tripoli è rappresentata dalla sicurezza e dalla stabilità degli impianti stessi. “Non permetteremo a nessuno di toccare i nostri giacimenti”, dichiarava Al-Arussi una settimana dopo l’attacco al sito algerino di In Amenas.
Questo non è bastato a impedire, all’inizio di marzo, la momentanea sospensione delle esportazioni di gas verso l’Italia dall’impianto di Mellitah, causata da violenti scontri tra milizie tribali rivali che si contendevano la (remunerativa) gestione della sicurezza del sito. Dopo qualche giorno la produzione è ripresa, ma in questi giorni altri scioperi e proteste stanno creando problemi in altri siti petroliferi del Paese. Secondo quanto riportato dalla stampa locale, manifestazioni per l’aumento dei salari hanno bloccato i terminali strategici di Brega e Ras Lanuf, in Cirenaica, come anche la produzione nel campo petrolifero di Gialo 59, vicino all’omonima cittadina nel sud del Paese. Il ministro Al-Arussi ha comunicato che un sit-in di camionisti davanti al porto Al Menqar di Bengasi, “sta creando grandi difficoltà al trasporto dei combustibili che da questo sito vengono distribuiti poi a tutta la parte orientale” del Paese. Si stima che le proteste di questi giorni potrebbero costare alla Libia 120mila barili di petrolio al giorno.
“Le sfide a breve termine [per la Libia] saranno la gestione della transizione politica, la normalizzazione della sicurezza e la capacità di affrontare alcuni limiti delle istituzioni”, ha messo in guardia il rappresentante del Fmi Chami, sottolineando anche la necessità per Tripoli di introdurre “importanti cambiamenti nelle politiche economiche” che abbiano un serio impatto sul tasso di disoccupazione.
 
Scatta l’Operazione Tripoli
Sabato scorso il governo libico ha dato il via all’Operazione Tripoli, con l’obiettivo di sciogliere definitivamente le milizie armate “illegali” ancora presenti nella capitale nonostante i precedenti appelli del governo di deporre le armi o di unirsi alle forze di sicurezza nazionali. “L’unico modo che abbiamo per provare alla comunità internazionale che siamo una nazione responsabile è quello di fare progressi concreti”, ha dichiarato il premier libico Ali Zeidan. “Useremo la forza e ci saranno degli scontri armati”, ha precisato il ministro dell’Interno libico Ashur Shuwail, spiegando che per l’arduo compito è stata istituita una speciale task force militare. Una delle prime mosse, ha fatto sapere il ministro, sarà quella di sgomberare i miliziani dagli oltre 500 alloggi privati e governativi occupati abusivamente. Tra questi edifici ci sono case e fattorie nella zona di Tripoli. Sabato notte i militari governativi, con il supporto di elicotteri militari e delle forze di polizia, hanno iniziato sgomberando una base militare nella parte sud della capitale. Secondo i piani del governo, l’operazione di sgombero e disarmo dovrà proseguire fino alla città orientale di Bengasi.


19 Marzo 2013  Rinascita

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