lunedì 6 maggio 2013

Di comidad del 02/05/2013

Nelle cosiddette società civili, moderne o post-moderne, lo spargimento di sangue sembra proprio possedere gli stessi effetti di consacrazione che ha nelle società primitive e tribali. L'attentatino di domenica scorsa, è quindi servito a conferire un po' di legittimità emergenziale ad un "governissimo" che presentava il bassissimo profilo di un governicchio, al quale la spruzzata di "politically correct" della massiccia presenza femminile - fra cui una donna di origine congolese -, non era riuscita ad attribuire alcuna credibilità in più.
Particolare sconcerto ha suscitato la nomina della guerrafondaia Emma Bonino a ministro degli Esteri; una scelta all'insegna del fanatismo americo-sionista, che si configura come un'esplicita rinuncia ad una propria politica estera, che viene ufficialmente delegata alla NATO. Dagli anni '90 la Bonino svolge questo ruolo di portavoce della NATO, ed ora potrà
scorazzare per le televisioni addirittura in veste di ministro degli Esteri. Evidentemente c'è in vista qualche altra guerra della NATO: Siria, Iran, Sudan, Zimbabwe, Corea del Nord. Si tratta solo di scegliere. C'è da essere certi che, quando si tratterà di votare per finanziare le missioni militari, la già pletorica maggioranza attuale si dilaterà ulteriormente.
L'impressione è che l'attuale soluzione governativa sia stata preparata nello stesso periodo in cui si fingeva di inviare il povero Bersani a compiere le sue "esplorazioni". Prospettare la candidatura di Emma Bonino alla Presidenza della Repubblica, ha costituito un espediente propagandistico per ripescare la sua immagine dal dimenticatoio, riverniciandola anche di quell'alone di prestigio che le mancava. Si è trattato di una manovra propagandistica analoga a quella di paventare la nomina di Giuliano Amato a Presidente del Consiglio, in modo da attribuire immediatamente ad Enrico Letta l'etichetta consolatoria del "meno peggio" di fronte alla pubblica opinione.
Ma la totale rinuncia dell'attuale governo a fare politica in proprio, è stata ufficializzata anche dalla nomina di Fabrizio Saccomanni al ministero dell'Economia. Che anche un governo che si pretende "politico", abbia accettato di affidare ancora una volta la guida dell'economia ad un sedicente "tecnico", costituisce un'automatica smentita di tale pretesa. Inoltre, il fatto che Saccomanni abbia ricevuto la sua formazione nel Fondo Monetario Internazionale, autorizza allo scetticismo circa la sua autonomia da questo organismo sovranazionale. Non che lo stesso Saccomanni faccia molto per celare questo suo legame sentimentale col FMI, poiché nel 2009 elaborò un documento di analisi del sistema monetario internazionale, in cui affermava che la causa della crisi finanziaria consisteva nel non aver concesso abbastanza potere al FMI. L'ideale di Saccomanni era quindi rappresentato da un governo mondiale dell'economia sempre più affidato al FMI.
Per consentire queste repentine conquiste di maggior potere, occorre una grave emergenza in grado di giustificare tutto. Lo scoppio della crisi finanziaria greca nel 2010 - l'anno successivo al profetico documento di Saccomanni -, avrebbe in effetti consentito una crescente ingerenza del FMI in Europa; ed all'epoca anche illustri commentatori dell'area "progressista" celebrarono questa "rivincita" del FMI e del suo principale azionista, cioè gli Stati Uniti.

Chiaramente la storiella propinata da Federico Rampini, secondo cui un FMI emarginato ed incompreso sarebbe ritornato alla ribalta per la sua capacità di affrontare le crisi, è la solita propaganda vittimistica dei potenti, dato che il FMI ha tratto dalla crisi greca solo pretesti per ampliare il suo storico strapotere. Qualche malpensante potrebbe persino sospettare che Saccomanni sia stato messo lì per preparare anche in Italia qualche emergenza finanziaria che consenta al FMI di farla ancora di più da padrone, ma si tratterebbe di sospetti meschini e ingenerosi. Perché mai un uomo del FMI dovrebbe comportarsi da uomo del FMI?
Nel campo della cosiddetta opposizione, c'è da registrare il fatto che il M5S, una volta perso il centro della scena, sta diventando un bersaglio fisso per ogni genere di provocazione, dalle accuse pretestuose di favorire la violenza, al gioco di pretese rivelazioni fondato su banalità. Si sta quindi prospettando una riedizione, un po' più colorita, della "opposizione"-punching ball alla Bertinotti.
Il M5S ha perso la sua occasione quando non è andato a scoprire il bluff che Napolitano aveva allestito con il suo pseudo-incarico a Bersani. A Grillo sarebbe bastato accettare di discutere il programma di un eventuale governo con Bersani, e non appena si fosse parlato di TAV o MUOS, sia Napolitano che i doppiogiochisti interni al PD sarebbero stati costretti a smascherarsi pur di affossare la prospettiva di un governo di coalizione col M5S.
Invece Grillo ha scelto (o è stato costretto a scegliere) di addossarsi per intero la responsabilità del fallimento di Bersani davanti alla pubblica opinione, ed ora si ritrova a non poter più smentire l'etichetta mediatica di quello che protesta, ma non sa proporre nulla. Gli atteggiamenti da purista e bigotto possono benissimo servire a coprire un sostanziale conformismo nei confronti dell'ideologia dominante. Ora, anche grazie a Grillo, persino uno come Enrico Letta potrà, per un po', spacciarsi come la strada obbligata, l'unica salvezza contro il disastro dell'ingovernabilità.
Anche le dichiarazioni del M5S durante il voto di fiducia al governo non hanno tentato nulla per scalfire questa aureola dello stato di necessità; in particolare, tutta la polemica si è rivolta su questioni strettamente interne, senza mettere in evidenza il fatto che il governo Letta manifesta i segni di un'ulteriore esasperazione della dipendenza dagli organismi sovranazionali. Ma, d'altra parte, prendersela con i "politici" è molto meno pericoloso che mettere al centro dell'attenzione le magagne della NATO e del FMI.

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