Nell’ormai consolidata prassi delle rivoluzioni colorate/primavere arabe assistiamo
all’ultimo obbiettivo in termini di tempo. Dopo l’Ucraina e Hong Kong,
anche l’Ungheria sembrerebbe essere entrata nel mirino del famigerato regime change di Washington.
Le
principali cause che portano gli Stati Uniti ad adottare strategie
aggressive contro altri stati (Afghanistan, Iraq, Iran, Siria, Ucraina,
Yemen, Egitto, Tunisia, Libia, Argentina, Brasile, Russia, Venezuela,
Cina, Hong Kong) sono da imputare principalmente a
motivazioni geo-strategiche. La dottrina americana di politica estera si
basa sul concetto di egemonia globale da oramai molti anni. Le
motivazioni per cui queste nazioni sono state destabilizzate, bombardate
o attaccate sono da ricercare nella visione occidentale della gestione
di un paese: perseguire prima gli interessi Americani. E’ stato così in
Siria, con i legami Iraniani, in Ucraina, per la vicinanza Russa e ad
Hong Kong per la contiguità con la Repubblica Popolare Cinese.
Naturalmente i target principali sono Russia, Iran e Cina, non di certo
le nazioni-satellite che vengono aggredite. Il problema di fondo è la
politica estera di Washington: perseverare con una dottrina di egemonia
completa, significa considerare ogni zona del mondo come strategica e zona di interesse su cui porre una sfera di influenza più o meno accentuata.
Ciò
che sorprende, ma non troppo, è come anche anche l’Europa
contrariamente agli anni passati, sia divenuto un target legittimo per i
Think-tank che determinano le scelte a Washington. Le motivazioni sono
da ricercare essenzialmente nei mutamenti multipolari che stanno
modellando il nuovo ordine mondiale. Gli Stati Uniti hanno bisogno di un’Europa ancor più legata e dipendente da Washington, che
esegua gli ordini senza porsi troppe domande sul reale effetto delle
proprie azioni (vedasi le sanzioni UE alla Russia su Input USA), per
centrare i propri obbiettivi strategici.
In
questo contesto le recenti decisioni prese a Budapest, ma più in
generale le politiche domestiche di Orban negli ultimi anni, hanno
acceso più d’una spia rossa nell’amministrazione Obama.
Naturalmente la stampa occidentale non è rimasta ferma un minuto e
nel corso del tempo il fuoco incrociato degli organismi di stampa
internazionali è divenuto diretto ed esplicito. Questi sono i titoli che
possiamo leggere riguardo all’Ungheria:
Dal Guardian: “L’Autunno di Budapest: lo svuotamento della democrazia sul bordo d’Europa”.
Oppure il New York Times: “Quando
Obama ha recentemente elencato gli stati che stanno silenziando i
gruppi della società civile, l’Ungheria è stato l’unico stato Europeo ad
essere stato menzionato. Washington ha imposto sanzioni e ha vietato
l’ingresso a sei ufficiali Ungheresi, affermando che sono troppo
corrotti per entrare in America”.
Come
sempre i media sono il motore, fomentatore, dei disordini e della
creazione di situazioni appetibili a forze straniere, capaci spesso
di influenzare il corso degli eventi.
NED e le sue affiliate.
Come già visto in altri contesti, spesso non bastano i media e dietro ad apparenti manifestazioni spontanee (che siano primavere arabe o rivoluzioni colorate) vi è una macchina organizzativa, rodata da tempo, ormai parte integrante della politica estera americana.
Il
governo degli Stati Uniti sta segretamente finanziando mezzi di
informazione e giornalisti stranieri. Ci sono organi governativi –
compreso il Dipartimento di Stato, il Dipartimento della Difesa,
l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (U.S. Agency
for International Development, USAID), il Fondo Nazionale per la
Democrazia (National Endowment for Democracy, NED), il Consiglio
Superiore per la Radiodiffusione (Broadcasting Board of Governors, BBG) e
l’Istituto degli Stati Uniti per la Pace (U.S. Institute for Peace,
USIP) – che sostengono lo “sviluppo dei media” in più di 70 paesi. In
These Times ha scoperto che questi programmi comprendono il
finanziamento di centinaia di organizzazioni non governative (ONG),
giornalisti, uomini politici, associazioni di giornalisti, mezzi di
informazione, istituti di formazione e facoltà di giornalismo. La
consistenza dei finanziamenti varia da poche migliaia a milioni di
dollari.
“Stiamo
essenzialmente insegnando le dinamiche del giornalismo, che sia
stampato, televisivo o radiofonico”, dice il portavoce di USAID Paul
Koscak. “Come imbastire una storia, come scrivere in modo equilibrato…
tutte quelle cose che ci si aspetta da un articolo prodotto da un
professionista”.
Ma alcuni, soprattutto fuori dagli Stati Uniti, la vedono diversamente.
“Pensiamo
che i veri fini che si celano dietro questi programmi di sviluppo siano
gli obiettivi della politica estera statunitense”, dice un alto
diplomatico venezuelano che ha chiesto di non essere citato. “Quando
l’obiettivo è il cambio di regime, questi programmi si rivelano
strumenti di destabilizzazione di governi democraticamente eletti che
non godono del favore degli Stati Uniti”.
I principali
organi, dediti alla creazione delle condizioni necessarie per ottenere
una situazione di pre-caos, sono essenzialmente 4:
- NED“[Il
Ned] è un programma di successo della Princeton University che supporta
i dipendenti pubblici, i responsabili politici e gli studiosi di tutto
il mondo che vogliono costruire governi più efficaci e responsabili in
contesti difficili.”
- - CIMA“Il
Center for International Media Assistance ( CIMA ) è dedicato al
miglioramento degli sforzi degli Stati Uniti di promuovere i media
indipendenti nei paesi in via di sviluppo in tutto il mondo”
- - USAID “E’
un’agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale diretto dal
governo federale degli Stati Uniti ed è l’agenzia
principalmente responsabile della gestione degli aiuti civili
all’estero.”
- - Freedom House“La Freedom
House è una organizzazione non governativa internazionale, con sede a
Washington, D.C., che conduce attività di ricerca e sensibilizzazione su
democrazia, libertà politiche, e diritti umani.”
Puntuale
come sempre, assistiamo ad una destabilizzazione ad orologeria
qualora gli apparati economico-mediatici di Washington decidano di agire
prendendo di mira una nazione.
Le
modalità e le motivazioni, delle proteste di questi giorni in Ungheria,
sembrano sospettosamente simili a quelle degenerate a Kiev in Febbraio:
18 Novembre –
Decine di migliaia di manifestanti sono scesi in piazza oggi a Budapest
e in altre città ungheresi per mostrare “indignazione” contro le
politiche di destra del primo ministro Viktor Orban.
Le
tensioni si sono intensificate dopo che il presidente Orban ha
rifiutato di licenziare Presidente dell’Autorità Fiscale Nazionale
Ildiko Vida, accusato di corruzione da parte di funzionari degli Stati Uniti, dal momento che Orban ha respinto le accuse di corruzione
“Non
possiamo pagare le tasse che tu rubi!” recitava uno degli striscioni.
Altri chiedevano le dimissioni. Belint Farkas, uno studente 26enne, si è
lamentato della politica estera dell’Unghieria di Orban: “Non vogliamo che Orban ci porti verso Putin e la Russia. Noi siamo un paese Ue e vogliamo stare in Europa, alla quale apparteniamo”.
Il procedimento per la creazione di queste condizioni di caos spesso lascia tracce e indizi nei mesi e negli anni precedenti.
Osserviamo cosa diceva poco tempo fa l’organizzazione CIMA:
“L’Ungherese Viktor Orban non ha appetito per la democrazia“.
“Da
quando è arrivato al potere nel 2010, il governo Orbán ha attuato una
serie di modifiche legislative che sono state criticate per aver minato
la libertà dei media.”
Le
recenti proteste nella città di Budapest hanno dimostrato che i
meccanismi per un regime change sono già operativi e stanno iniziando a
percorre tutte le vie necessarie per centrare questo obbiettivo.
La
buona riuscita di tali azioni dipendono essenzialmente dal livello di
repressione che il governo legittimo di Orban deciderà di applicare. Un
tentennamento in stile Janukovyč, qualora la situazione degenerasse come
accadde a Kiev, potrebbe essere fatale. Per il futuro dell’Europa,
dell’Eurasia e di un mondo multipolare più bilanciato auguriamoci che
Orban non commetta l’errore di indugiare troppo nel reagire a queste
aggressioni straniere.
Di Federico Pieraccini