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lunedì 21 giugno 2010

Identità e immigrazione


di Manuel Zanarini - 15/06/2010
«Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani. Man mano che cadendo, passa da un piano all'altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete: fin qui tutto bene, fin qui tutto bene! Il problema non è la caduta; ma, l'atterraggio» (L'odio, 1995, di Mathieu  Kassovitz)


I fatti di Rosarno e di Milano avevano riacceso il dibattito pubblico sui problemi legati alla gestione dell'immigrazione. Pochi giorni dopo, l'attenzione di tutti si è spostata nuovamente su ballerine, reality e partite di calcio...the show must go on!
Passate le giornate degli strilli isterici di pennivendoli e intellettuali da bottega, penso sia l'occasione giusta per una breve riflessione sull'enorme questione delle migrazioni di massa. Per prima cosa, vanno analizzati i motivi che spingono milioni di persone ad abbandonare il proprio paese natio e a cercare fortuna nel cosiddetto Occidente. La causa primaria è da ricercare nella “politica del debito” portata avanti dai centri dei “padroni della globalizzazione” (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, in primis) in favore delle multinazionali.

Sostituendosi ai regimi colonialisti, e sfruttando la Guerra Fredda, sono stati finanziati governi corrotti al soldo delle grandi industrie occidentali, fornendo prestiti per milioni di dollari. Quando, negli anni '70, in seguito alla crisi petrolifera, gli Stati Uniti hanno alzato notevolmente i tassi di interesse, il risultato fu quello di rendere impossibile, ai paesi in via di sviluppo, di far fronte ai debiti contratti. A questo punto, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale si sono offerti di rifinanziarli, imponendo, in cambio, l'adozione dei “piani di aggiustamento strutturale”. Si tratta di direttive vincolanti per gli Stati debitori, grazie alle quali vennero imposte le privatizzazioni delle più strategiche aziende pubbliche e l'apertura dei mercati ai prodotti importati dall'occidente (in particolar modo nei settori agricoli e alimentari). Così facendo, nei paesi debitori, vennero distrutti i sistemi agricoli tradizionali, col risultato di perdere l'autosufficienza alimentare: per sfamare il proprio popolo dipendevano completamente dalle importazioni di cibo estero (spesso OGM), indebitandosi sempre più; ma, stavolta, nei confronti delle multinazionali. La conseguenza principale di queste politiche è che le persone hanno abbandonato le zone agricole, per andare a cercare lavoro nei ghetti delle megalopoli. Basti pensare che nel 2008, per la prima volta nella storia, la popolazione urbana ha superato, a livello mondiale, quella delle zone agricole. Da queste “riserve” di disperati in cerca di lavoro, provengono coloro che si vendono tutto per “comprarsi” un posto sui barconi o sugli autobus della disperazione, che attraversano le frontiere.
Questa massa di disperati viene utilizzata come “carne da macello” dagli industriali dei cosiddetti paesi sviluppati, i quali possono imporre loro paghe da fame e condizioni di lavoro da schiavi, pena la perdita del permesso di soggiorno. Questo, ovviamente, ha effetti devastanti anche sui lavoratori italiani, i quali, grazie al processo iniziato col “pacchetto Treu” e con la “riforma Biagi”, hanno ormai perso ogni tutela del lavoro, coinvolti in quel processo che Eugenio Orso definisce brillantemente come «flessibilizzazione delle masse».(1)
Ora che abbiamo visto le cause economiche che portano alle migrazioni di massa, ritengo sia il caso di analizzare le conseguenze culturali che comportano. Ogni essere umano definisce la propria identità grazie alla comunità in cui vive; ma, quest'ultima si relazione anche con l'ambiente che abita, secondo la definizione di mondo, ben individuata da Heidegger. Ora, è ovvio che per gli immigrati si crei un problema di “autoidentificazione”, in quanto sradicati dalla propria terra, non si sentono di appartenere a nessuna comunità: lontani da quella in cui sono nati e non appartenenti a quella in cui vivono. Tale fenomeno porta a livelli molto alti di criminalità, soprattutto tra gli immigrati di seconda generazione (coloro che sono nati nei paesi ospitanti), com'è evidente nelle banlieue francesi. Questo fenomeno si somma alla disgregazione del senso comunitario nelle società ospitanti, travolte dalla cultura capitalista e atomista dell' “american way of life”. Il risultato è quello di trovarsi con milioni di migranti sradicati dalla propria cultura e trasformati in “manovalanza a basso costo” per gli imprenditori occidentali, da un lato; dall'altro, gli appartenenti alle società ospitanti terrorizzati da un fenomeno che non conoscono e isolati nella loro solitudine.
Le misure adottate si sono rilevate del tutto inefficaci, e non poteva essere che così; infatti, da un lato non vengono affrontate le cause di tale fenomeno, e dall'altro si cerca di “integrare” gli immigrati, col risultato di sradicarli sempre più dalla loro comunità. Non è certamente impedendo alle ragazze musulmane di indossare il chador, per magari “imporre” loro l'ultimo modello di minigonna inguinale, che si può pensare di risolvere il problema. Men che meno pensando di “blindare” le frontiere, facendo entrare solo chi ci fa comodo perché vada a raccogliere le arance a un euro al giorno, vivendo come schiavi. La vera soluzione deve agire su due piani: economico e culturale.
Vanno fermate le “politiche del debito”, che stanno affamando e portando alla disperazione i popoli dei paesi poveri (i suicidi di massa dei contadini in India ne sono la prova), ridando loro la possibilità di vivere una vita degna nel loro paese. Dall'altro lato, nei paesi ospitanti, bisogna reimpostare le società su base comunitaria. L'unico modo possibile per gestire l'attuale società post-moderna è quella di organizzarla su base di federazioni di comunità, le quali vivano secondo le proprie regole culturali. Che piaccia o no, la comunità che meglio riesce a vivere nei paesi ospitanti è quella cinese, proprio perché i suoi appartenenti ritrovano nei paesi ospitanti lo stesso ambiente culturale e comunitario in cui sono nati. Non mi pare che l'obiezione del fallimento del sistema statunitense o francese possa cogliere nel segno; infatti, questo è ben altra cosa da quello che auspico. Le banlieue o i ghetti delle metropoli americane non hanno nulla di comunitario; anzi, servono proprio come laboratorio di riproduzione di sradicamento culturale e di fenomeni delinquenziali. Quello che vorrei vedere io sono i fedeli raccolti in Piazza Maggiore a Bologna, che pregavano per le vittime dell'Operazione Piombo Fuso a Gaza, non i rapper impasticcati che indossano i vestiti all'ultima moda e si sparano per la strada per qualche dose di crack!
Come fa dire Mathieu Kassovitz al protagonista del suo bellissimo film, “L'odio”, la situazione dell'immigrazione, così come gestita ora, sembra la storia dell'uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani...come sarà l'atterraggio è facile immaginarlo!


(1): Costanzo Preve e Eugenio Orso, Nuovi signori e nuovi sudditi, Editrice Petite Plaisance, 2010

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