Mangia sano, torna alla natura e vivi meglio. «Dal 1975 Mulino Bianco è sinonimo di bontà e genuinità. La sua ampia gamma di prodotti da forno è adatta a tutta la famiglia e ad ogni momento della giornata» recita lo slogan del colosso Barilla. Mentre gli spot televisivi e patinati offrono dal ’76, a ritmi martellanti cieli sereni della Toscana e set cinematografici, le coperture del vasto stabilimento Barilla di San Nicola di Melfi in Basilicata, sono a tutt’oggi di plumbeo asbesto. Una svista, forse una dimenticanza per l’holding che fattura milioni di euro e spende fortune per la pubblicità sui giornali e in tv? E’ sufficiente un’accurata panoramica fotografica per accertare la pericolosa presenza che gli enti istituzionali preposti alla tutela della salute pubblica (manager e tecnici pagati lautamente dai cittadini-contribuenti e consumatori) non hanno ancora verificato. Gli ondulati in fibro-cemento, meglio conosciuti come “eternit” dal nome che, nel 1900, il suo inventore, l’austriaco Ludwig Hatscek, diede a questo micidiale impasto chimico di fibre di amianto (crisotilo) e cemento a lenta presa, fanno bella mostra dal 1987 dove meno te l’aspetti. Appunto, nei 9,58 ettari del lotto 16 di proprietà del celebre marchio alimentare. Addirittura sulla testa di questo impianto industriale in provincia di Potenza che vanta 7 linee produttive (fette biscottate, biscotti da colazione, pasticceria, snack, pani morbidi, sfoglie, merende) per 65 mila tonnellate annue di prodotto alimentare. C’è rischio sanitario per la salute dei 500 lavoratori (di cui circa 100 stagionali) e degli ignari milioni di consumatori? «La sicurezza dei prodotti e delle persone che lavorano sono i presupposti di qualsiasi nostro stabilimento» asserisce da Parma, Elisabetta Iurcev, Media Relations Manager della Barilla. In casi del genere, tuttavia, le rassicurazioni telefoniche non bastano. E i riscontri visivi identificano l’attuale realtà: l’amianto è presente in notevoli quantità (diverse tonnellate) sotto forma di lastre, ma l’Asl Venosa 1 non si è ancora scomodata per accertare approfonditamente il livello di inquinamento delle fibre aerodisperse nell’area.
Dal canto suo la regione Basilicata non ha mai effettuato in questa zona industriale una mappatura del territorio con presenza di amianto e un monitoraggio epidemiologico del fenomeno. Eppure è un obbligo di legge sancito ben 18 anni fa. In loco dal 1987 vengono prodotte le merendine più famose d’Italia ma i tetti della fabbrica sono fatti di pericoloso amianto, una sostanza cancerogena messa al bando nel Belpaese dalla legge 257 del 27 marzo 1992. La ponderosa letteratura scientifica – a partire dal 1932 – parla chiaro, basta esaminarla. Addirittura un regio decreto del 1909 fa presente di prestare attenzione alla “lana di salamandra”. La caratteristica filamentosa dell’asbesto è anche la causa della sua pericolosità; il problema è che, a lungo andare, questo minerale si sfibra dando origine a piccolissime scaglie invisibili all’occhio umano. I frammenti polverulenti ed estremamente volatili, possono, una volta respirati, provocare forme tumorali alle vie respiratorie anche a distanza di decenni. Per i proprietari è un impianto all’avanguardia: «A Melfi (PZ), gioiello industriale e tecnologico del Sud Italia, dove produciamo anche biscotti e pani morbidi, è installata invece la linea di produzione di fette biscottate più grande d’Europa» si legge nel sito online del gigante agroalimentare. Proviamo ad entrare per visionare anche le coibentazioni interne, ma il portiere, in un pomeriggio assolato, scaccia scortesemente il cronista all’ingresso: «Questa è proprietà privata se ne vada». E il direttore non risponde al telefono. Con tanti saluti ai principi aziendali: «coerenza, trasparenza e rispetto debbono guidare ogni decisione e comportamento». Chiediamo nuovamente lumi all’addetto stampa del gruppo internazionale in cui lavorano oltre 7300 addetti. «Lo stabilimento di San Nicola di Melfi è per noi molto importante: ci sono dei prodotti che facciamo solo lì; ad esempio le nastrine – rivela l’esperta Iurcev – E’ importante perché poi magari uno pensa che le facciamo solo al nord e le vendiamo al nord. Invece le facciamo al sud e le vendiamo in tutt’Italia». Per la materia prima quali sono le fonti di approvvigionamento? «Il grano tenero è praticamente tutto italiano; lo acquistiamo prevalentemente in Puglia e Basilicata» rivela la manager aziendale Elisabetta Iurcev. «La Barilla compra le materie prime anche in Basilicata – puntualizza Gerardo Nardiello, segretario regionale della Uila-Uil (Unione italiana lavoratori agroalimentari) – Si riforniscono proprio nella zona industriale di Melfi». La Barilla si difende certificando gli stabilimenti produttivi «rispetto allo standard ISO 14001 allo scopo di ridurre gli impatti delle proprie attività produttive sull’ambiente promuovendone il continuo miglioramento». Non è tutto. A poche centinaia di metri in linea d’aria, si staglia il più grande inceneritore di rifiuti. E’ entrato a regime un decennio fa grazie alla Fiat che nel 2002 l’ha ceduto ai francesi dell’Edf (gestori di centrali nucleari). L’impianto Fenice vomita nell’atmosfera e nel sottosuolo veleni micidiali. Già, ma la Barilla fa finta di niente. La multinazionale italiana ha chiesto alla direzione del giornale La Stampa di sospendere la mia collaborazione. Motivazione? A quanto emerge dai documenti ufficiali, lesa maestà. Scrivo a Mario Calabresi che ha partecipato in prima persona ad un evento organizzato dalla Barilla. Mi risponde tempestivamente rievocando i nostri trascorsi al quotidiano La Repubblica, comunque negando qualsiasi pressione da Parma. Dalla direzione amministrativa del quotidiano Fiat, l’addetto amministrativo Alessandro Bianco, sostiene addirittura che l’amianto non c’è. Tra grandi aziende si scambiano i favori, pur di mettere a tacere una voce libera. Torno dopo due anni dall’inchiesta condotta e pubblicata dal quotidiano La Stampa (11 ottobre 2008). L’amianto è sempre più friabile e danza senza controllo. Da un cavalcavia stradale fotografo la fabbrica mentre sopraggiunge una prima pattuglia di carabinieri a chiedere chiarimenti. Poco dopo piomba un’autovettura della polizia con due agenti in borghese del commissariato di Melfi. Forse non hanno letto il fonogramma che annuncia il mio arrivo con tanto di scorta dei colleghi. Pretendono di sapere perché immortalo il complesso industriale. Nel frattempo transitano sotto gli occhi dei “tutori della legge”, camion carichi di rifiuti pericolosi. Anche la Barilla ne produce: due anni fa li ho scovati in Calabria. Alle 20,21 di martedi 7 settembre squilla il mio cellulare di lavoro. Non rispondo. Alle 20,28 il portatile trilla ancora. Dall’altro capo del telefono si presenta il poliziotto della mattina. Si chiama Antonio Pennella. In sostanza mi chiede di chiudere un occhio sull’amianto fuorilegge della Barilla; insomma di soprassedere almeno fino ad ottobre inoltrato. Mi rivela che il direttore dello stabilimento gli ha mostrato delle carte. Una ditta di Torino smantellerà l’amianto che uccide entro l’anno al costo di 1 milione di euro. Fingo di abboccare: è un vecchio trucco che pratico con successo da un ventennio. Il 9 settembre in mattinata chiamo il poliziotto Pennella e gli chiedo di farmi inviare le carte dal direttore dello stabilimento. Mi risponde che non può pretenderle dall’amico direttore. Devo fidarmi della sua parola. Ad ogni modo mi chiede ancora di ritardare la pubblicazione di questa inchiesta, in cambio mi darà delle dritte sulla zona. Nauseato chiudo la conversazione e mentalmente spedisco questo sbirro di quart’ordine a quel paese. Sono come san Tommaso: amen.p.s. Date un’occhiata al portfolio fotografico in fondo al testo. Mi raccomando, al bando il boicottaggio. Comprate solo prodotti Barilla.
Il gigante Barilla in società con la famiglia Anda (trafficanti di armi)
Oltre 7.300 dipendenti: poco più di 5 mila in Italia. Volumi di vendita: 1,48 milioni di tonnellate. Posizione finanziaria netta: 113, 5 milioni di euro. L’assetto produttivo di Barilla si basa su 27 poli produttivi, tra pastifici, stabilimenti per i prodotti da forno e mulini. Dai 6 mulini di proprietà per la semola Barilla esce circa il 70% della materia prima. Accanto ai 3 mulini italiani, sono attivi i mulini di Volos in Grecia, quello di Bolu in Turchia e, accanto al pastificio di Ames negli Stati Uniti, è stato costruito un mulino integrato con il ciclo di produzione dello stabilimento. Nei 7 pastifici si producono circa 900.000 tonnellate di pasta l’anno, differenziate in 150 formati di pasta di semola e oltre 30 di pasta all’uovo. Accanto ai siti produttivi italiani, l’azienda possiede impianti in Grecia, Turchia e Nord America. Dal 2002 Barilla produce anche Primi Piatti Pronti surgelati nello stabilimento di Latina. Nel mercato dei prodotti da forno, Barilla è il terzo produttore europeo e leader italiano, grazie a un’offerta che comprende svariate categorie di prodotti. Per gestire quest’area di business, Barilla conta oggi su 10 centri produttivi. Tra questi, in Italia, si segnalano lo stabilimento di Castiglione delle Stiviere (Mantova) e quelli di Cremona e di San Nicola di Melfi (Potenza). Dalle 11 linee di Castiglione delle Stiviere esce il 75% della produzione di cracker e biscotti a marchio Mulino Bianco. A Novara sorge lo stabilimento Pavesi, il più grande del Gruppo per numero di addetti e per complessità delle tecnologie gestite. L’impianto di Ascoli Piceno, con 5 linee produttive, è il sito dove vengono prodotti ogni giorno i saccottini, le crostatine e i plum-cake. Ai sette poli produttivi italiani si sono aggiunti nel 1999 i tre stabilimenti Wasa in Germania, Svezia e Norvegia, destinati alla produzione di pani croccanti. Barilla è il più grande utilizzatore mondiale di grano duro per la produzione di pasta: circa 1.250.000 tonnellate all’anno. Sono 350.000, invece, le tonnellate di grano tenero che trasforma ogni anno. I cereali rappresentano il cuore della produzione. Oltre al grano, anche la segale, della quale acquista oltre 50.000 tonnellate. Altra materia prima sono le uova: annualmente circa 500 milioni.
Amianto, killer invisibile
Vive nascosto sottoterra, nelle cantine, nelle tubature, nei pavimenti di edifici pubblici. L’Italia lo ha bandito nel ’92, ma ufficialmente ne restano in giro 32 milioni di tonnellate. E di contaminazione si continua a morire. L’amianto è costituito da fibre piccolissime e leggere, che si depositano su bronchi e polmoni producendo effetti devastanti a distanza di decenni. Il mesotelioma, tumore che colpisce il rivestimento dei polmoni (pleura) e degli organi addominali (peritoneo), può colpire dopo quarant’anni, e uccidere in nove mesi. E non è l’unica conseguenza mortale. C’è anche l’asbestosi (formazione di cicatrici fibrose sul tessuto dei polmoni, che riducono fortemente le capacità respiratorie) e il carcinoma polmonare. Un nemico invisibile ci assedia. E’ l’amianto. Nome tecnico asbesto, dal greco “incorruttibile”, inestinguibile, indistruttibile”. Isolante, ignifugo, fonoassorbente ed economico. Così è stato usato a più non posso. Dalle coperture dei tetti in eternit (cemento misto a fibre di amianto) alle piastre isolanti per ferri da stiro, dai guanti da forno agli schermi cinematografici, dai filtri per pipe e sigarette (noto il caso delle kent mentolate) alle carrozze ferroviarie. E poi: phon, freni per le auto, persino assorbenti igienici interni. Anche la plastica di alcuni giocattoli veniva rafforzata con questo materiale. E ancora: teatri, cinema, scuole coibentate con amianto spruzzato. Ufficialmente in 94 capoluoghi di provincia, il 12 per cento degli edifici scolastici ne contiene ancora ai giorni nostri. Si può trovare nell’impasto dell’intonaco, nei pavimenti di linoleum, nelle canne fumarie, nei pannelli acustici, nelle tubature idriche. Non c’è una mappa nazionale delle tubature colpevoli, ma dati locali. A Bologna ci sono ancora 1.600 chilometri di condutture in cemento amianto, tra Cesena e Forlì 2.300; in provincia di Foggia addirittura 5 mila, a Venezia 930 e a Padova 600. Negli anni ’80 l’Italia, con le sue centomila e qualcosa tonnellate l’anno, era il secondo produttore di asbesto in Europa dopo l’Urss. Dalle Alpi alla Sicilia, il territorio ne è disseminato. L’Agenzia per la protezione dell’Ambiente identifica i siti: l’ex cava di Balangero (TO) la miniera più grande d’Europa; Casale Monferrato (AL), con più di 600 morti per aver respirato amianto; la Fibronit di Bari, quasi 150 mila quadrati inquinati nel centro della città e un numero imprecisato di morti e ammalati ma non ancora bonificata; Biancavilla (CT) comune tenuto sott’osservazione dall’Istituto Superiore di Sanità perché interamente costruito, strade comprese, con una fibra della famiglia dell’amianto. E poi ci sono le innumerevoli aree dimesse, più o meno riconvertite. L’elenco si moltiplica leggendo le rassegne sindacali, i resoconti di vedove e superstiti, i bollettini dell’Associazione Esposti Amianto, i documenti delle cause giudiziarie. L’amianto è ovunque, e fa male. Agli esseri umani e all’ambiente. C’è il dramma umano: 5 mila morti all’anno in Europa, destinati quasi a raddoppiare ogni 12 mesi. Le persone in attesa di risarcimento (le richieste di riconoscimento, quasi tutte di prepensionamento, per esposizione all’amianto presentate all’Inail sono quasi 300.000). E chi attende giustizia, come i 1.650 firmatari della maxivertenza amianto di Casale e Siracusa contro la famiglia Schmidheiny, proprietaria della multinazionale Eternit. O come le vedove degli operai morti per mesotelioma a Monfalcone, a Pistoia, al Poligrafico dello Stato di Foggia. Le richieste si moltiplicano. Finora gli esiti sono contrastanti. E c’è il problema ambientale, con il dilemma di come smaltire quei 32 milioni di tonnellate che ancora avvelenano l’Italia. “Miliardi di metri quadrati di eternit esposti alle intemperie si stanno sfarinando, con rilascio di fibre nell’ambiente” denuncia Bruno Pesce, coordinatore del comitato vertenza amianto di Casale. E sono le fibre respirate a causare, a distanza di decenni, il tumore. E poi c’è il problema globale. C’è ancora chi produce ed esporta, come Russia e Canada ma anche l’Italia fino al 2006. Sappiamo molto ormai ma in ritardo. Era il 1992 quando l’Italia, con la legge 257, vietò estrazione, importazione, esportazione, commercializzazione e produzione di amianto e prodotti che lo contengono. Che l’amianto fosse pericoloso si sapeva almeno dal 1965, anno di pubblicazione degli atti della conferenza della New York Academy of Sciences sui suoi effetti biologici. Ed è dal 1976 che l’Agenzia internazionale per le ricerche sul cancro di Lione attesta che “tutti i tipi di amianto sono cancerogeni, e qualunque livello di esposizione nocivo”. Affermazione che neanche oggi viene presa per buona: ai fini pensionistici, l’amianto è pericoloso solo se un centimetro cubico d’aria contiene 0,1 fibre (100 fibre/litro). E se è stato respirato otto ore al giorno per dieci anni. In Italia esiste un documento trovato negli uffici della miniera di Balangero e conservato negli Archivi di Stato di Torino, che prova un accordo per rallentare i tempi legislativi. E’ il resoconto di una riunione informale tenuta il 17 novembre 1977-78 (questa la data ipotizzata dalla ricostruzione) all’Assocemento di Roma. Secondo gli appunti, Angellotti, allora direttore dell’amiantifera di Balangero, “esprime la preoccupazione dei soci Ania (Associazione nazionale imprese assicuratrici) per l’iter della proposta di legge sull’amianto. Il ministro del lavoro ha chiesto all’Enpi (Ente nazionale prevenzione infortuni) di parlare dei limiti delle polveri. Il dottor Annibaldi della Confindustria è intervenuto sull’Enpi per rallentare l’emissione di normative sui limiti”. L’Enpi avrebbe accettato e “il ministro della sanità Anselmi ha confermato tale fatto”. Confindustria, ministero della Sanità e del Lavoro ed ente per la prevenzione degli infortuni coalizzati sulla pelle dei lavoratori. I fatti: le prime limitazioni per l’uso della crocidolite (il tipo di amianto più pericoloso) sono dell’86 (8 anni dopo l’incontro in questione); l’Europa aveva chiesto agli Stati membri di proibire l’amianto nell’83, mentre la legge italiana è del ’92. Tanto che la Corte di giustizia europea ci ha condannati per non aver recepito la normativa entro i tempi canonici. Poi finalmente la legge è arrivata, e con lei i buoni propositi. Come quello di mappare tutto il territorio è di istituire un registro italiano per il mesotelioma, il cancro dell’amianto. La mappatura è un sogno senza soldi. Solo quattro milioni e mezzo di euro sono stati stanziati dal ministero dell’Ambiente. Altrettanti verranno dati a chi ha già presentato le priorità di bonifica: attività frammentaria e delegata alle Regioni, che in qualche caso si sono mobilitate e in tanti altri no. Il modello è l’Emilia Romagna, che ha già censito edifici pubblici e privati e aziende che hanno usato amianto. Il risultato? Quasi duemila edifici positivi, su oltre 33 mila. C’è amianto nelle caldaie, nelle cantine, nei pavimenti, nei depositi, nei sottotetti. E in un terzo delle aziende. E’ ancora inadempiente il Lazio e non c’è mappatura né registro per i mesoteliomi. Sopravviviamo nell’emergenza. In Ciociaria, oltre a essere aumentati i morti per mesotelioma ci sono ancora casi di asbestosi”. E’ andata meglio all’idea del Registro Nazionale dei Mesoteliomi, nato presso l’Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza sul Lavoro; oggi è presente in 16 regioni, e raccoglie i dati sulla diffusione del tumore in Italia. “I casi sono un migliaio l’anno” sintetizza Fulvio Aurora, segretario nazionale dell’Aea. “Secondo le stime, però, ci sono altri tremila morti l’anno per malattie legate all’amianto; 209 mila i potenziali esposti alla fibra”. Il dramma non si ferma ai lavoratori. Parecchie mogli sono morte di mesotelioma per aver lavorato le tute impolverate dei mariti. “In Veneto”, segnala l’epidemiologo Enzo Merler, “il 23 per cento dei casi di mesotelioma femminili è causato da esposizioni domestiche o ambientali” E a Casale su 600 morti, 200 non hanno mai lavorato l’eternit. Una volta effettuata la mappatura, bisogna decidere se e come bonificare. Non sempre, infatti, la bonifica è la soluzione migliore, perché produce rifiuti e rilascia fibre nell’atmosfera. Se l’amianto non è friabile, è controproducente rimuoverlo, avvertono gli esperti. Una volta decisa la bonifica, come farla è un rebus: incapsulamento, confinamento, torce al plasma. I siti di stoccaggio sono pochi, il trasporto e lo smaltimento hanno costi elevati. A volte, chi deve bonificare la casa o il cortile sotterra l’amianto dove può o lo lascia nelle discariche abusive. Vanno allora favoriti gli incentivi fiscali (oggi sono del 36 per cento) e realizzati servizi porta a porta di trasporto e smaltimento gratis. Ma quando? E che dire della mappatura delle navi incompleta? Su quante c’è ancora amianto? E perché il materiale continua a passare dai porti italiani? L’uso del crisotilo (amianto bianco), invece, è ancora tollerato in molti paesi del vecchio continente. Al momento soltanto 14 prodotti contenenti questa fibra sono stati messi fuorilegge dall’Ue e solo 9 (Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Olanda, Svezia) hanno imposto un bando unilaterale su tutti i tipi di amianto. Il crisotilo, appunto, mette in gioco enormi interessi economici perché rappresenta il 95 per cento della produzione mondiale. Il 15 settembre 1998 il Comitato scientifico dell’Ue ha reso pubblico il risultato di un esame specifico che ribadisce: «esistono prove scientifiche sufficienti per affermare che tutte le forme di amianto, crisotilo compreso, sono cancerogene per l’essere umano». Nonostante le evidenze, le proteste politiche e le minacce economiche di chi si oppone al bando (peraltro molto energiche anche nel Belpaese) non scemano. L’azione di lobbyng è giocata soprattutto dal Canada e dalla Russia. «Tentano ancora una volta di fare la distinzione fra tipi di amianto – puntualizza Fulvio Aurora di Medicina Democratica -. Distinguono l’amianto cattivo (crocidolite e anfiboli in generale) da quello buono (crisotilo), cercando di far passare l’idea che questo può essere utilizzato in modo sicuro». Le pressioni a suon di dollari dei potentati in campo rappresentano una minaccia per l’obiettività delle organizzazioni scientifiche internazionali. Infatti, avverte lo studioso Barry Castleman «sono stati compiuti ingenti sforzi da parte dell’industria dell’amianto per fare in modo che documenti favorevoli ai propri interessi fossero pubblicati come rapporti ufficiali dall’International Program on Chemical Safety, dall’Organizzazione mondiale della sanità e dall’International Labour Office».
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Fonte articolo: Terranostra
Per il Bene Comune
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