a seguito articolo "La Ue? Potrebbe anche sbaraccare"
tratto da Il ribelle
L’UE E GLI “HEDGE FUNDS”: REGOLAMENTO O ABBANDONO DEL TERRITORIO EUROPEO?
DI JEAN CLAUDE PAYE
voltairenet.org
Con gran clamore l’Unione Europea ha appena adottato una regolamentazione degli hedge funds per arginare il rischio sistemico cui essi espongono l’economia.
In verità, come osserva Jean-Claude Paye, la nuova direttiva è una specie di colabrodo, che avrà un effetto opposto rispetto a quello annunciato. Il suo reale obiettivo è di controllare in modo sommario i fondi europei, aprendo allo stesso tempo la porta ai fondi statunitensi, che potranno così speculare senza limite a detrimento degli europei.
Diversamente da istituzioni finanziarie, banche, assicurazioni e società d’investimento che fanno pubblicamente appello al risparmio, gli hedges funds non subiscono alcuna forma di controllo specifica. Essi possono utilizzare a piene mani le esenzioni previste dai regolamenti. Tuttavia, se non sono i fondi speculativi la causa della crisi attuale, bensì l’ammorbidirsi delle condizioni per il credito bancario e la creazione monetaria conseguentemente indotta, il rischio sistemico che gli hedges funds fanno correre all’insieme del sistema finanziario è stato messo in chiaro. In effetti, al fine di ottenere un rendimento elevato, questi hanno fatto ricorso a leverages, ovvero a dei rapporti di indebitamento. Contraggono prestiti in modo massiccio con le banche, al fine di compensare la debolezza della loro tenuta e in questo modo inducono, in caso di problemi, un effetto moltiplicatore sugli squilibri.
Senza contemplare la possibilità di indebitarsi e di creare bolle finanziarie, l’Unione Europea evita di affrontare la questione essenziale. La direttiva sugli hedge funds designa un capro espiatorio, i fondi speculativi, di cui tuttavia non aumenta la sorveglianza, anzi, elimina alla prova dei fatti la possibilità di un controllo su questi da parte delle autorità nazionali.
Una regolamentazione trompe l’œil
Questo progetto finge semplicemente di esercitare un controllo sugli hedge funds [1], senza mettere in atto una forma di sorveglianza a livello comunitario. Non muove un passo in avanti verso la creazione di uno spazio finanziario europeo. Al contrario, la direttiva estende il livello nazionale di accreditamento di questi fondi, permettendo agli organismi che abbiano sede in uno degli stati membri l’accesso all’insieme dei territori che compongono l’Unione Europea, senza l’autorizzazione delle singole autorità nazionali. Al contrario dell’effetto annunciato il testo rafforza la posizione del paese che domina il comparto finanziario e allo stesso tempo la posizione della City londinese, che gestisce la maggior parte dei fondi speculativi operanti sul suolo europeo. Di fatto, la direttiva viene annunciata come inscritta nel quadro della lotta ai paradisi fiscali, quando in realtà, tramite la via traversa della City, apre loro la porta dell’Unione Europea, senza alcun controllo da parte degli stati membri, eccetto quello delle compiacenti autorità inglesi.
Dopo esser stata accettata il 26 Ottobre [2], la proposta di direttiva AIFM (Alternative Investment Fund Manager) [3], è stata finalmente votata dal parlamento europeo il giorno 11 novembre 2010. È stato chiesto all’assemblea di legittimare una legge quadro che fornisce alla Commissione dei poteri discrezionali. La direttiva lascia un ampio margine di manovra alla Commissione per determinare o per non precisare i punti chiave della legislazione, tra i quali, ad esempio, fissare i livelli massimi nei rapporti di indebitamento, le procedure di svalutazione, le restrizioni delle operazioni di vendita scoperte, e questo al momento della preparazione della direttiva e, soprattutto, dopo il suo insediamento [4]. Si tratta, per il Parlamento, di dare carta bianca alla Commissione così come all’«autoregolamentazione» del sistema finanziario.
Formalmente il testo fissa un quadro europeo agli hedges funds, preparando un «passaporto» che permetta la commercializzazione dei fondi in tutta l’UE, senza doverne ottenere autorizzazione in ciascun paese. I gestori europei potranno liberamente commercializzare i loro fondi a partire dal 2013. Il passaporto sarà concesso agli organismi offshore nel 2015 e sarà riservato a quelli dei paesi firmatari degli accordi di cooperazione fiscale e di lotta al riciclaggio.
La questione del «passaporto» era al centro delle negoziazioni sulla direttiva AIFM, iniziate un anno e mezzo fa tra Commissione europea, Consiglio e Parlamento europei. Il conflitto ha opposto in maniera netta il Regno Unito, reticente a qualsiasi forma di regolamento degli hedges funds, alla Francia ed al Parlamento dell’UE.
Un sesamo che dà accesso all’ intero mercato europeo
Se il passaporto darà accesso all’insieme del territorio europeo, ciò dipenderà esclusivamente dalle autorità di supervisione nazionale. Esso sarà fornito dall’autorità di supervisione del paese d’origine, una volta che questa sia stata certificata dalla futura autorità comunitaria dei mercati finanziari (ESMA), operativa a partire da inizio 2011. L’ESMA terrà il registro dei gestori di fondi autorizzati ad operare all’interno dell’Unione e avrà potere di arbitraggio in caso di conflitto tra autorità nazionali sulla natura e le garanzie fornite dai fondi.
Come ogni altra piazza finanziaria situata in uno dei paesi membri, la City di Londra, dove è domiciliato il 70-80 % degli hedges funds, sarà dipendente solamente dalla struttura di controllo britannica. Così, invece di formare un quadro regolatore europeo, la direttiva favorisce la concorrenza fra gli stati membri. Niente impedirà ai gestori di scegliere il paese in cui registrarsi in base al grado di compiacenza nei loro confronti da parte delle autorità nazionali.
I gestori di fondi hanno al momento l’obbligo di definire un rapporto d’indebitamento massimo. Questa informazione è trasmessa alle autorità nazionali del paese europeo in cui i gestori risultano registrati. Ma niente nella direttiva obbliga le autorità ad intervenire allorquando il rapporto d’indebitamento viene giudicato eccessivo. E nemmeno l’ESMA, l’ente regolatore europeo dei mercati finanziari, avrà il potere di costringere l’autorità nazionale a farlo.
La direttiva non si dà i mezzi per controllare realmente il livello d’indebitamento, che è a tutti gli effetti all’origine del rischio sistemico indotto dai fondi speculativi, dato che questi possono vantare pochi capitali propri e contraggono massicciamente debiti presso le banche. Ne risulta dunque una capacità di azione moltiplicata sui mercati, non commisurata ai loro capitali. Nei fatti la direttiva non tocca il livello d’indebitamento, ma obbliga semplicemente i fondi speculativi a comunicare quest’ultimo alle loro autorità di controllo, senza vincolo da parte di queste ultime di intervenire in caso di problemi. Si tratta soprattutto di mantenere l’indipendenza dell’insieme del sistema finanziario. Come ha fatto notare Guido Bolliger, capo degli investimenti della Olympia Capital Management [5 ] : «Piuttosto che passare attraverso una direttiva, sarebbe stato più semplice contenere il rapporto di indebitamento che le banche di investimento possono assegnare agli hedge funds, aumentando l’onere del capitale concesso sul rapporto nelle operazioni di prime brokerage».
Dominio della finanza anglosassone
Una disposizione dell’accordo si presenta come un mezzo per lottare contro i paradisi fiscali. I fondi speculativi, situati in paesi che non assicurano uno scambio effettivo di informazioni, soprattutto fiscali, non potranno essere commercializzati all’interno dell’Unione Europea. La questione assume particolare rilievo di fronte alla notizia che 80% degli hedges funds sono situati in aree offshore.
Eppure, in seguito alle pressioni di Londra, il testo finale limita il campo della misura ad una commercializzazione detta «attiva». Questo concretamente significa che niente impedirà ad un investitore europeo, una banca, una compagnia di assicurazioni, un organismo di investimento collettivo del risparmio di acquistare parti di fondi situati fuori dall’Unione Europea, che non abbiano ottenuto il passaporto europeo per il mancato rispetto dei criteri della direttiva. Questa disposizione permette così l’accesso in Europa ai capitali posti in paradisi fiscali in relazione con la City, quali le isole anglo-normanne e le isole Cayman o zone gestite direttamente dagli Stati Uniti come il Delaware.
Si tratta di una violazione dello spirito della legislazione, dato che, in questo caso, nessuna informazione sarà trasmessa agli osservatori che non potranno così valutare l’ esposizione al rischio degli «investitori» europei. Ma si tratta soprattutto di un nuovo abbandono dei paesi membri dell’UE alla completa potenza della finanza anglosassone. Non esiste la possibilità formale, per uno stato membro dell’UE, di fare ricorso presso l’ESMA, in caso di controversie con l’autorità nazionale di un paese terzo, che potrà modificare il rapporto di forze.
Questa direttiva si inscrive così nella ristrutturazione dei mercati finanziari, rivelata dal G20 dell’aprile 2009 sulla «lotta contro la frode fiscale» [6], vale a dire nella legittimazione del dominio anglosassone sulla finanza europea. Eppure, se il primato della City in seno all’Unione Europea, per quanto riguarda la gestione dei fondi speculativi, è schiacciante (80% della produzione di questi fondi è britannica contro il 5% della Francia), questo potere deve essere ridimensionato. I fondi inglesi rappresentano 212 miliardi di dollari, per un ammontare di 1000 miliardi di dollari per quelli situati negli USA. In questo modo, la piazza londinese si presenterebbe in primo luogo come il cavallo di Troia degli hedges funds statunitensi.
Jean-Claude Paye
Sociologo. Ultimi lavori pubblicati : La Fin de l’État de droit , La Dispute 2004 ; Global War on Liberty , Telos Press 2007.
Come Don Chisciotte
La Ue? Potrebbe anche sbaraccare
Dirlo più chiaramente era impossibile: «se l’Eurozona non sopravviverà anche l’Unione non sopravviverà». Tanta chiarezza, che è cosa diversa dall’opportunità, proviene nientemeno che dal presidente della stessa Ue,Herman Van Rompuy.
Buttata lì come pendant di un’esortazione a cooperare nel tentativo di uscire dalle turbolenze finanziarie in corso («Dobbiamo lavorare tutti insieme per permettere all'Eurozona di sopravvivere») la frase è un vero e proprio epitaffio sulla favoletta del carattere eminentemente politico della stessa Ue. Perciò, al di là di ogni altra considerazione sulle circostanze in cui è arrivata, andrebbe non solo impressa nella memoria collettiva ma anche scolpita, letteralmente, sulle facciate dei palazzi del potere europeo. Solo per limitarci ai più importanti, il Parlamento a Bruxelles/Strasburgo e la Bce a Francoforte sul Meno. Nonché, già che ci siamo, le sedi dei Consigli dei ministri di ogni Stato membro. E infine, passando dagli edifici in muratura a quelli in senso figurato, sul frontespizio del Trattato di Lisbona, o di ogni altro abbozzo (aborto) di Costituzione su scala continentale.
La questione è decisiva. Non c’è nessun primato della politica sull’economia, ma l’esatto contrario. La Ue non esiste allo scopo di diventare via via un’unica nazione, sia pure di tipo federale, ma solo per svolgere un’attività analoga a quella di un consorzio, ovviamente a responsabilità limitata. Nella sostanza, perciò, le istituzioni “politiche” sono una gigantesca messinscena, con la quale si nasconde la natura economica delle relazioni reciproche. O, per meglio dire, dei rapporti di forza. Ognuno rappresenta innanzitutto se stesso e si preoccupa prioritariamente del proprio tornaconto, piuttosto che mettersi al servizio di una volontà collettiva e di un destino comune.
Basterebbe pensare alla mancata unificazione dei tassi di interesse sul debito pubblico, per averne la più schiacciante riprova. Se lo scopo dell’euro, in quanto moneta unica, era creare un’area di stabilità sufficientemente vasta da escludere attacchi speculativi, la cosa più logica sarebbe stata fare altrettanto coi titoli di Stato dei diversi Paesi. Una sola struttura di emissione, che acquisisse i fondi necessari sul mercato al medesimo tasso e che poi, in seconda battuta, li erogasse ai singoli beneficiari. Fine degli spread e, tendenzialmente, bilanci risanati più in fretta, visto che gli oneri sui nuovi finanziamenti sarebbero stati più bassi.
Peccato che fosse impossibile. Per due motivi estremamente precisi e pressoché insormontabili. Primo, i diversi governi non si fidavano, e continuano a non fidarsi, l’uno dell’altro. Secondo, la finanza internazionale non lo avrebbe permesso, avendo un perenne bisogno di situazioni di instabilità – o anche solo di condizioni diversificate, come avviene passando da una Borsa all’altra – sulle quali lucrare.
Il paradosso dell’attuale corsa al riequilibrio dei conti pubblici, quindi, è inscritto in questa contraddizione di fondo. Il sistema non mira affatto a un vero, profondo e definitivo risanamento, ma solo a uno “squilibrio sostenibile”. Il caso dell’Irlanda, che fa il paio con quello della Grecia, è esemplare: siccome è molto indebitata, la spingono a indebitarsi un altro po’. L’importante non è eliminare le cause del dissesto, il che esigerebbe un ripensamento dell’intero assetto economico e sociale, ma scovare degli escamotage per dilazionare la resa dei conti. Chi garantisce per l’Irlanda? L’Unione europea. E per il Portogallo? E per la Spagna? Ancora l’Unione europea, forse. Sempre che trovi i soldi, magari chiedendoli al Fondo monetario internazionale. E sempre che continui a esistere. Come ammonisce Van Rompuy, e come è prassi corrente in tema di consorzi tra imprese, le unioni si fanno e si disfano, a seconda di come vanno gli affari.
Federico Zamboni
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