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giovedì 20 gennaio 2011

Marchionne è l'effetto non la causa

A seguire "David Ricardo all'Amatriciana" di Giacomo Gabellini



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Con tutta la sua boria, l’Ad della Fiat rimane solo una pedina di un gioco diretto da altri. Ma potrebbe avere un pregio: mostrare il vero volto, brutale, della globalizzazione


Cosa rappresenta in fondo il tecnocrate Sergio Marchionne? La brutale messa a nudo dell’essenza della modernità: l’industrialismo che rende l’uomo “una merce” (Marx), uno “schiavo salariato” (Nietzsche).

C’è poco da scandalizzarsi e far le verginelle di fronte al diktat dell’amministratore delegato Fiat: non ha fatto altro, dopotutto, che imporre con ferrea consequenzialità la logica del mercato industriale. E questa logica si chiama globalizzazione: le imprese si muovono fra gli Stati senza avere più una patria, obbedendo esclusivamente alla convenienza aziendale in termini di minor costo del lavoro e maggiori aiuti pubblici. Ovvero delocalizzando la produzione là dove è possibile spremere più soldi ed erodere diritti acquisiti ai lavoratori (turni più pesanti, pause ridotte, stretta sulle malattie, scioperi di fatto vietati, sindacati padronali) e sfruttare la finzione democratica dei governi, alle prese con opinioni pubbliche agitate e insofferenti, facendosi finanziare gli investimenti con cui mantenere i posti di lavoro, pur se a condizioni ottocentesche (la multinazionale di Torino ha assunto la gestione dell’americana Chrysler con un prestito e la benedizione di Obama, e le unionsstatunitensi, proprietarie di maggioranza, hanno volentieri chinato il capo come le nostre Cisl e Uil, che però non possiedono il becco di un’azione Fiat).

In altre parole, il marchionnismo si presenta a noi come l’ultimo stadio dello sviluppo dell’industria moderna. Dalle prime conquiste sociali a cavallo fra Otto e Novecento al welfare state costruito negli ultimi sessant’anni, il mondo capitalistico si era illuso di aver trovato un equilibrio soddisfacente fra esigenze del profitto e diritti del lavoro. Statuti dei lavoratori, contratti nazionali, sindacalizzazione, garanzie crescenti: il paradiso delle riforme sembrava aver vinto e non dover essere più messo in discussione. E invece, con una marcia iniziata trent’anni or sono negli Stati Uniti, paese apripista di ogni cambiamento, col neo-liberismo della Scuola di Chicago e il progressivo affermarsi delle multinazionali, l’illusione è andata via via tramontando. Fino ai nostri giorni, quando la globalizzazione, una sorta di dato naturale accettato da tutti, destra e sinistra, critici e integrati, ha fornito l’argomento forte, l’arma decisiva al ricatto aziendalista: o ci si adegua, o si perde tutto.

La Fiom, con cui personalmente ci siamo sentiti in dovere di schierarci contro l’indegno referendum di Mirafiori, rappresenta l’ultimo baluardo contro la deriva ultra-industrialista ma anche la sacca di colpevole miopia della cosiddetta sinistra radicale: dov’erano i Landini quando cominciava l’opera di disgregazione con l’acquiescenza alle criminali politiche dell’Fmi e del Wto, all’euro grimaldello della finanza predona, al Trattato di Lisbona, all’ideologia mondialista (che i vetero-marxisti sognano ancora nella versione “buona”, e strafallita, dell’internazionalismo egualitario e universale, già rifiutato da Stalin e abbandonato da Mao)?

Nell’Italia di oggi, che aggiunge sempre un po’ di cialtroneria nel calarsi le braghe al modello americano, si compie l’incubo che il vecchio Marcuse descriveva a proposito degli Stati Uniti fin dagli Anni Sessanta del secolo scorso nel suo “L’uomo a una dimensione”: «una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata». Come non pensare ai discorsi rassicuranti, minimizzatori, ragionevoli, appunto, ascoltati dai politici e dai sindacalisti marchionnisti in questi giorni: tutti buoni padri di famiglia che convincono i figli riottosi a prendere atto che non c’è altra via alla rassegnazione, se si vuole salvare il salvabile. Con la coscienza a posto perché si fa credere che sono gli stessi lavoratori a decidere la propria sorte attraverso un “democratico” voto di fabbrica - con il coltello puntato alla gola. Tutto ciò nel quadro di una società che procede imperterrita nel miraggio di un benessere generalizzato che sta mostrando giorno dopo giorno la sua miserevole evanescenza.

Dopotutto, Marchionne ha un merito storico: aver strappato la maschera di democrazia sociale ad un sistema produttivo che torna alle origini e svela la sua vera natura dura, insensibile, alienante. Il collaborazionismo fra capitale e lavoro è crollato. Quelli che un tempo si chiamavano “padroni” ritornano ad essere tali, e questa volta senza un’opposizione di massa. E i lavoratori sentiranno nuovamente sulla loro pelle il peso della schiavitù. L’industrial-capitalismo dal volto umano è stato una parentesi della Storia. Ora si apre un’era di oppressione tanto più pesante quanto più dipinta come priva di alternative e truccata coi mezzucci referendari, in cui starà agli schiavi, ai sudditi, agli sfruttati il compito di non copiare gli errori del passato. Per esempio contrapponendo al neo-liberismo dispotico un neo-marxismo anacronistico e inservibile, e soprattutto reiventando una missione liberatrice adatta ai nostri tempi.

Noi proviamo a tratteggiarne appena i contorni con la seguente formula, tutta da elaborare: no alla globalizzazione tout court (di capitali, merci, uomini e diritti); sì a un’organizzazione sociale fondata sulla cooperazione (cooperative di produttori, in cui capitalisti e lavoratori non si distinguano più se non per soglie di proprietà, comunque controllate e garantite dallo Stato). Se il marchionnismo porterà la frustrazione che bolle in pentola a nuovi approdi di questo tipo, sarà stato un’operazione-verità – perdonateci, amici operai – non solo prevedibile, ma utile. Un male necessario.

Alessio Mannino
Il Ribelle


DAVID RICARDO ALL'AMATRICIANA (di G. Gabellini)


Da Pomigliano D'Arco a Mirafiori, passando per Termini Imerese. La storia si ripete come farsa. Marchionne impone e dispone, governo e opposizione se ne lavano pilatescamente le mani e sindacati, un tempo "compagni", ora colletti bianchi più affaristi che mai, si appellano alla "ragionevolezza" degli operai per infilarglielo beatamente in quel posto, previo vaselinamento.

Cinquant'anni di conquiste sociali spazzate via con un unico colpo di spugna sferrato del maglioncino umano, che sta inanellando un successo dopo l'altro. Un ricatto qua, una provocazione là e il gioco è fatto. C'era da aspettarselo. La creazione di una "new company" da non iscrivere assolutamente alla Confindustria, nota congrega di benefattori, in modo da eludere i vincoli del contratto nazionale di categoria al fine di trattare direttamente con i lavoratori era da considerarsi niente meno che il preludio all'attuale deriva autoritaria del Lingotto. Marchionne, in quella che alcune anime belle hanno avuto l'ardire di definire "trattativa", ha gettato sul tavolo un ultimatum a governo e dipendenti, minacciando che se questi ultimi non si fossero decisi a rinunciare definitivamente al contratto nazionale di categoria e ad accettare orari e ritmi di lavoro assai più intensi, lo stabilimento di Mirafiori avrebbe chiuso i battenti, e il governo si sarebbe ritrovato a placare i malumori di qualche migliaio di disoccupati in più. I sindacati (con l’eccezione della FIOM), riformisti per antonomasia, hanno chinato il capo, cercando di distogliere l'attenzione generale dal nocciolo della questione e di orientarla verso il miliardo di euro di investimenti promesso in caso di ratifica del sedicente "accordo" da Sergio Marchionne. Bontà sua. Tuttavia, a differenza di quanto blaterato dai tanti ingenui e smidollati "compagni", difensori a spada tratta dei diritti dei lavoratori, che per fustigare Marchionne hanno tirato in ballo "eccessiva" avidità, scarso patriottismo ed altre emerite idiozie consimili, l'anomalia di questa intera vicenda, che dovrebbe portare il governo a porsi alcune domande al riguardo, riguarda la natura del capitalismo italiano; un capitalismo spesso a corto di capitali, che alla concorrenza, e a tutto ciò che essa comporta, privilegia l'assistenzialismo parassitario. Come è noto anche al più ottuso eremita, la Fiat ha sempre ricevuto fior di quattrini dallo stato italiano, senza i quali già da tempo avrebbe dichiarato bancarotta. Suona quindi ridicolo l'appellarsi, da parte di Marchionne, all'inflessibilità delle leggi che regolano il mercato per piegare gli operai italiani ai propri comodi, laddove la Fiat ha passato gli scorsi decenni a reclamare ed ottenere tutti gli "aiuti" di cui aveva bisogno per rimanere a galla. Sostanzialmente, la strategia adottata da Marchionne consiste nel tirare periodicamente la corda, avanzando pretese di volta in volta più drastiche e inaccettabili, al fine di raggiungere l'inevitabile punto di rottura da assurgere prontamente a scusa valida per chiudere un altro stabilimento. L'obiettivo non dichiarato è quello di delocalizzare totalmente la produzione, sfruttando i vantaggi che è in grado di offrire la manodopera a basso costo dei paesi del secondo e terzo mondo. Tutte le multinazionali agiscono in questa maniera, e la simultaneità con cui si muovono sta rapidamente appurando la triste validità della vecchia "legge ferrea dei salari", teorizzata dall'economista inglese David Ricardo, comunemente considerato uno dei padri del liberismo. Costui ebbe la lungimiranza di prevedere che all'interno di un sistema di mercato totalmente aperto e privo di dazi sulle importazioni, i salari sarebbero scesi costantemente, fino a stabilizzarsi sul livello di sussistenza. Ciò è dovuto al fatto che la vera sovrabbondanza d'offerta nel mercato globale è quella di manodopera, teoricamente infinita, sostituibile, riciclabile e ricollocabile. Tuttavia, ragionando in termini marxiani, la “classe operaia” ha saputo coalizzarsi ed escogitare sistemi di difesa e autotutela, che hanno mantenuto la remuneratività del lavoro a livelli piuttosto alti, mentre i governi hanno varato leggi e adottato misure sociali, previdenziali e sanitarie atte a limitarne lo sfruttamento. Dal canto loro, molti imprenditori, sulla scorta di Harry Ford, compresero che solo retribuendo decentemente gli operai sarebbero riusciti ad integrarli nel meccanismo produzione/consumo su cui si regge l'intero sistema.
L'emergere di tutti questi indizi ha indotto numerosi miopi economisti a condannare senza appello la legge ricardiana, e a considerarla del tutto campata per aria. Costoro, dall'alto della loro dabbenaggine, non si sono resi conto che né nel corso dell’Ottocento né in gran parte del Novecento sono esistite le condizioni di libero mercato indicate come prerequisiti da Ricardo. La scala dei mercati di allora era per lo più nazionale, racchiusa in ogni singolo paese, in cui l'offerta di manodopera, specializzata e non, era tutt'altro che infinita, sostituibile, riciclabile e ricollocabile. La presenza dello stato si faceva sentire sul flusso dei capitali e delocalizzare le fabbriche in altri paesi presentava numerose difficoltà in più rispetto ad ora. La globalità del mercato si è raggiunta in tempi relativamente recenti, poiché è da pochi anni che le imprese si sono attrezzate per spostarsi tempestivamente là dove le i margini di guadagno sono migliori con la stessa facilità dei singoli individui, usufruendo dell'offerta di manodopera a basso costo letteralmente inesauribile che i paesi in cui vanno a stabilirsi sono in grado di garantire. E sono pochi anni che i paesi nei quali il costo del lavoro è mantenuto alto dalla presenza di vincoli di natura previdenziale e sanitaria si ritrovano minacciati dall'affacciarsi sul mercato di orde di cittadini appartenenti a paesi sprovvisti di questo genere di tutele. La cosiddetta "globalizzazione" non ha fatto altro che mettere in relazione il ricco Occidente con i paesi poveri del secondo e terzo mondo, veri e propri serbatoi di manodopera a basso costo. Esattamente come in due vasi comunicanti il dislivello del liquido contenuto in essi finisce per pareggiarsi, così la forbice che divide la remuneratività dei salari del primo mondo da quelli del secondo e terzo è inesorabilmente destinata a chiudersi. Il che si tradurrà nell’arricchimento loro e nel simmetrico impoverimento nostro. I continui, arroganti diktat di Marchionne che stanno gettando nella disperazione migliaia di operai corrispondono all'aprirsi di nuovi sbocchi lavorativi per la manodopera polacca e serba. Il nostro senso di sconfitta derivante dal prendere atto del costante declino cui è soggetto il nostro tenore di vita corrisponderà alla loro esaltazione legata alle crescenti possibilità di realizzazione in termini di benessere che l'inerzia innescatasi garantirà inesorabilmente. La "legge ferrea dei salari" sta materializzandosi con assoluta pienezza, e Marchionne sta ricordandocela con irritante arroganza, giorno dopo giorno.


Conflitti e strategie

3 commenti:

  1. Sul primo pezzo che ho letto, l'altro non ho il tempo...concordo praticamente su tutto...tranne che la Fiom sia l'ultimo baluardo....non è esattamente così.

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  2. Io provengo da una famiglia marxista e comunista e un po' condivido soprattutto l'ultima parte. Quest'ultima parte però contiene in se la giustificazione di quello che fa Marchionne. È giusto che i lavoratori occidentali godano di un benessere nettamente superiore a quello cinese? Sono uomini anche loro dopotutto.
    Mi sto avvicinando sempre di più ideologicamente alla componente ecologista e malthusiana della sinistra moderna e per dirla come un mio zio anche lui comunista-ecologista, la colpa è dei cinesi perché nascono. Può suonare sinistra la cosa, ma se la Cina avesse la stessa densità abitativa della Siberia, a chi lo trasferisce il lavoro Marchionne? Se i nordamericani fossero rimasti quei 15 milioni di indiani benestanti che si dividevano un continente (escluso il Messico) prima dell'arrivo di Colombo, saremmo qui a recriminare contro l'avido impero americano? Penso di no.

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  3. Salve Nicola,

    io non ho letto una giustificazione all'operato di Marchionne in sé, piuttosto la messa a nudo della spietatezza del sistema neoliberista/capitalista.
    C'è molta confusione anche sull'idea di benessere, io non reputo tale lavorare per pagare mutui e finanziarie per ennesimi cellulari e macchine.
    Questo è consumismo non benessere, il pianeta certo non può sopportate che tutti viviamo così.
    Significa forse che dovrebbo cominciare a sterminare gente che tanto non può consumare e non serve per produrre così che il gioco per quel 20% di straricchi possa continuare?
    Io credo di no, ma purtroppo le teorie mahltusiane perseguono questo, o chi comunque se ne fa "scudo" per giustificare lo sterminio di massa attraverso vaccini e guerre ad esempio.

    Forse non sarebbe meglio e possibile, che tutti abbassassimo i nostri standards?
    Dobbiamo per forza vivere tutti con 3 televisori e computers a testa?

    Non è colpa della Cina se si è "convertita" all'industrialismo, è stata fatta una guerra spietata alla CIna per "indurla" a giocare il gioco del capitalismo, ora sarebbe ingiusto o meglio comodo addossare tutte le responsabilità a quel popolo.
    Ed auspico vivamente che si perseguano altre strade, visto che esistono per arrivare a stare su questo pianeta bene, con l'essenziale E SANO, per noi e le future generazioni, come facevano non solo gli indiani d'america ma tuttti, proprio tutti i popoli prima dell'era industriale.
    Trovo aberrante che si auspichi con le buone o le cattive una forzata riduzione delle persone così che "le industrie" non sanno più dove localizzare solo perché siamo incapaci di rivedere il nostro vuoto stile di vita, perché incapaci di consegnare alle future generazioni
    una terra sana.

    Un link per capire cosa significano le politiche mahltusiane (o cosa ne hanno fatto chi le predica e come l'ecologia venga erroneamente usata a pretesto da dei pazzi criminali)

    http://ilupidieinstein.blogspot.com/2010/09/allarmista-sul-riscaldamento-globale.html

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