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giovedì 28 aprile 2011

Bye Bye Flessibilità ed il Cappio Europeo

All'indomani della manifestazione del 9 aprile 2011 contro la precarietà, Fini Gianfranco per conto del gruppo Futuro e Libertà, nonché il Pd per bocca di Cesare Damiano ex Ministro del Welfare del centro-sinistra (il governo che "superava" con la fantasia anche la precarietà) non se la sono sentita di avere il buon gusto di tacere. Dato  che sono co-fautori dello sfacelo detto flessibilità, si sono visti costretti a "cianciare", esternando un pò di pietà, fingendo per l'ennesima volta d'interessarsi e di voler porre rimedio ad un "guaio" che avrebbe bisogno di una cura che non sia costituita solo da un placebo. Qui le esternazioni.
Fortuna che ci ha pensato la Ue a togliere le castagne dal fuoco promuovendo la "Flessisicurezza".

Consiglio vivamente la lettura sintetica delle ultime porcate sintetizzate nell'articolo "Il patto suicida per l'euro" di Paolo Barnard, emanate da quell'accozzaglia di burocrati dannosi, quanto costosi passacarte di lobbies varie, radunati nel covo di Bruxelles.
Oltre Chernobyl, Fukushima è "bello" sapere di cosa dobbiamo morire.
Barbara

Bye Bye flessibilità di Frattin Massimo

Da un lato il Fli di Gianfranco Fini, che presenta una proposta di legge. Dall'altro un articolo firmato da Ichino, Rossi e Montezemolo. Dopo avere incensato per anni i contratti atipici, spacciandoli come una scelta obbligata, adesso fanno marcia indietro. Ma tira aria di speculazione elettorale, per conquistare il voto dei precari

Dopo anni di sguardi indifferenti o addirittura di autoincensamenti sulla indispensabile flessibilità sul lavoro introdotta in Italia, si scopre che tanto indispensabile forse non è.
Così, un articolo a triplice firma, Ichino-Rossi-Montezemolo, dell'8 aprile ha dato il via (fortunatamente verrebbe da dire) ad un dibattito sul tema del lavoro, specie quello precario. Nell'articolo, i tre sostengono che si deve «riscrivere il diritto del lavoro in modo che tutti i nuovi rapporti da qui in avanti possano essere costituiti a tempo indeterminato: anche quelli che fino a oggi sono stati l'espressione patologica della precarietà (contratti a progetto, partite iva fasulle, ...), garantendo la piena copertura di eventuali oneri economici aggiuntivi per le imprese piccole e grandi, trattando nella stessa maniera l'operatore privato e l'operatore pubblico».

Siffatto progetto è stato condiviso oggi anche da Gianfranco Fini, complice una proposta di legge depositata il 7 aprile (toh, lo stesso giorno in cui il trio dava alle stampe il proprio articolo...) dai suoi parlamentari Raisi e Della Vedova. Una proposta che prevede anche una stretta sugli stage (gratuiti solo fino a due mesi, dopodiché retribuiti) e sull'abuso dei co.co.pro.

Purtroppo, la lunga assenza dal dibattito politico di temi come quello del lavoro deve aver lasciato un po' di ruggine anche su politici tanto navigati, che sembrano scivolare sulle classiche bucce di banana. Si propone cioè «un contratto di lavoro unico per le assunzioni a tempo indeterminato, anziché questa inaccettabile flessibilità con tante tipologie contrattuali. Ma diamo la possibilità ai datori di lavoro di licenziare». Però pagando. Ovvero, facendo un modesto conticino a titolo di esempio: un giovanotto comincia a lavorare, viene assunto in regola, dopo cinque anni porta a casa 25mila euro lordi all'anno, viene licenziato, ma riceve un'indennità di quasi 10mila euro. In sintesi, l'idea è questa. Scontati i commenti: si va dal «vecchia idea» della UIL, al «farneticante» dell'UGL, fino all' «inaccettabile» dell'IDV.

Eppure, questo dibattito possiede almeno il merito di riportare sotto i riflettori quello che è forse il problema più serio del paese, dal momento che mette a rischio in un colpo solo il presente ed il futuro. Il punto purtroppo è che sembra mancare la volontà di risolverlo realmente e pensando davvero al benessere della collettività. Si continua cioè a ragionare in termini di coppie antinomiche - giovani/anziani, dipendenti/imprese - cercando di identificare in uno solo dei due elementi quello che è titolare di alcuni privilegi ingiustificati che dovrebbe cedere all'altro, distogliendo l'attenzione dai problemi reali. Così, si propone che l'anziano (innanzitutto in senso lavorativo) vada in pensione più tardi, devolvendo quel tempo ad una sorta di welfare per il giovane; o che le imprese, come si è visto, assumano a tempo indeterminato accollandosi anche le spese per l'eventuale licenziamento. Si spostano cioè i costi dell'inefficienza politica sempre sulle categorie sociali.

In realtà, i nodi decisamente più significativi sono altri, e hanno come oggetto la trasformazione inesorabile del lavoratore da produttore a prodotto esso stesso e, come tale, soggetto alle leggi di mercato. Si è talmente proceduto in questa direzione, con una responsabile connivenza politico-imprenditoriale, che bisognerebbe ribaltare l'intero sistema per addivenire ad una soluzione. Perché ormai il problema del precariato, e del lavoro in generale, non è dato tanto - o non solo - dalla forma del contratto o dalla sua durata, quanto piuttosto dalla sua quantificazione reddituale. Ed è inutile girarci tanto intorno: mille euro al mese da co.co.co. o da assunto a tempo indeterminato rimangono mille euro al mese. Che daranno comunque una vita precaria.

Perché i veri attori di questo dramma si chiamano spesa pubblica (di chi ci amministra), oppressione fiscale (per lo più su chi vive di busta paga), evasione fiscale (per lo più di chi non vive di busta paga), emolumenti faraonici (a manager e dirigenti di aziende che poi magari chiedono sacrifici agli operai), e sostituzione, o meglio sovrapposizione, dei potentati economici alla classe politica.

Così, di fronte al fatto che adesso si dica in sostanza che per anni si è sbagliata la politica sul lavoro e che è meglio optare per una nuova soluzione, ovvero il posto fisso con licenza di licenziare, vien da chiedersi se chi lo propone conosce la rotta del suo percorso. Anche perché uno di loro, Montezemolo, diceva questo degli stipendi italiani «I salari in questi anni sono cresciuti più della produttività, a differenza di quello che è accaduto in Germania, Francia e Gran Bretagna (...). Non mi piace questa polemica sul capitalismo d'altri tempi, sull'idea che i redditi non sono saliti per colpa nostra» (Il Sole 24 ore.com, 9 genn. 2008).

Più che di attenzione ai precari come persone, insomma, sembrerebbe il caso di parlare di attenzione ai precari in quanto elettori. Una differenza decisiva.

da Il Ribelle per  Per il Bene Comune

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