Ho preso l'immagine di uno spot elettorale del PCI datato 1984, leggasi dettagli su Il Post. A giudicare dallo stesso, pare che l'Europa nel 1984 fosse devastata da guerre fratricide e la disoccupazione galoppasse. Oggi, gli eredi del PCI chiamano la macelleria sociale atto di responsabilità nei confronti dei mercati internazionali ed incassano con gioia il Premio Nobel assegnato all'Ue per il suo impegno nelle guerre di aggressione imperialista. Il ventenne del 2012 non avrà né pensione né sanità gratuita. Bella l'Europa dei popoli eh?
Barbara
Mutui: le banche non perdonano, in aumento le abitazioni pignorate (+23%)
Noi Italiani non siamo degli abili speculatori, non abbiamo l’abitudine di “giocare” in borsa. Siamo un popolo concreto e conservatore, vogliamo certezze.
Dalla vita chiediamo la stabilità famigliare, un lavoro, qualche risparmio ed il grande
sogno: la casa.
sogno: la casa.
Rispetto ad altri Paesi europei, abbiamo il più alto numero di abitazioni di proprietà.
É un antico retaggio considerare il “mattone” il migliore investimento.
Qualsiasi soggetto si avvicini al mondo del lavoro, ha una meta: riuscire ad acquistare il proprio ” nido”.
Lo viviamo così: lo spazio privato dove nessuno ci può e ci deve invadere.
Una sicurezza che questa crisi finanziaria e le fallimentari misure del Governo Monti ci sta togliendo.
Parliamo spesso dei pensionati sul lastrico, degli esodati, dei disoccupati, delle imprese che chiudono ma facciamo poco rumore per rimarcare un vero e proprio dramma.
Dati ADUSBEF: nel 2012 sono stati eseguiti 46mila pignoramenti di abitazioni, il 22,8% in più rispetto al 2011, il doppio del 2008; 100mila unità immobiliari sono andate all’asta.
L’acquisto di una casa avviene, di massima, grazie all’erogazione di mutui bancari riscattabili mensilmente.Secondo il Testo Unico bancario, il ritardato pagamento è consentito dai 30 ai 180gg dalla scadenza. Dopo sette rate insolute, scatta la richiesta di rimborso immediato e la procedura di pignoramento dell’immobile.
Una crisi così profonda, che porta depressione nelle entrate delle famiglie, rende spesso difficile rispettare gli impegni economici presi. Non tutti possono permettersi di stipulare polizze assicurative di copertura ed anche queste incidono in forma onerosa.
Diventa un’impresa titanica per i disoccupati, i pensionati minori, i nuovi poveri.
Le banche non perdonano. Mancare i pagamenti oltre i tempi previsti dalle norme, non da scampo: le abitazioni vengono pignorate.
La premessa sottolineava il valore che gli Italiani danno alla casa e chiarifica lo stato di disgrazia in cui cade chi deve privarsi del tanto ambito sogno.
È una sconfitta senza pari: dover rinunciare al bene primario; trovare una nuova locazione; affrontare l’onta dell’esproprio forzato; perdere l’unico bene”cuscinetto”che garantirebbe un eventuale altro accesso al credito.
La morte “finanziaria” di una persona!
Teniamo conto anche del danno psicologico: ammettere alla società ed a se stessi di aver fallito e di non essere stati in grado di assicurarsi un futuro.
L’attuale gestione dell’economia ha provocato dei disastri sociali più o meno evidenti.
Gli espropri per insolvenza passano inosservati eppure da questi non si torna indietro: un lavoro forse,si ritrova; la propria casa, una volta persa, non c’è più…probabilmente neanche la possibilità di farne un’altra.
I giostrai della politica considerino anche questo dramma come un loro insuccesso.
Avere un pensiero verso quelle famiglie rimaste senza un tetto li faccia riflettere e, mi auguro, anche un pò vergognare.
di Patrizia Grilli – @PgGrilli
Pmi senza soldi: tredicesime a rischio
Il grido della Cgia di Mestre: “la stretta creditizia ha lasciato senza liquidità le azidende italiane piccole e medie”Ernesto Ferrante
L'ultima cosa che ci passa per la testa è di candidarci a ricoprire un ruolo da protagonisti nella squadra degli uccelli del malaugurio di professione, ma quando si parla di tredicesime, in tutta sincerità, qualche brutto pensiero ci attraversa la mente e non ce la sentiamo di sfoderare plastici sorrisi e frasi da cioccolatini argentati.
Il rischio che l’ambita entrata “aggiuntiva” (notoriamente già spesa prima di essere incassata), possa imboccare una via diversa rispetto a Babbo Natale e alle sue renne, è altissimo. L’ultimo a lanciare l’allarme, almeno per ora, è stato il segretario dell’Associazione Artigiani e Piccole Imprese CGIA di Mestre, Giuseppe Bortolussi. Le sue parole, lasciano poco spazio ad interpretazioni tinte di rosa: “La stretta creditizia ha lasciato senza soldi le pmi e, tra il fitto numero di impegni finanziari e di scadenze fiscali previste per il mese di dicembre, sono a rischio i pagamenti delle tredicesime”.
Il numero di richieste d’aiuto pervenute da molti piccoli imprenditori che si trovano in difficoltà per mancanza di liquidità, sembra essere molto elevato. “Non siamo in possesso di alcuna statistica in grado di dimensionare l’entità del fenomeno, tuttavia, prosegue Bortolussi, le segnalazioni giunte in queste ultime settimane presso i nostri uffici sono state numerosissime. Da sempre il mese di dicembre presenta un numero di scadenze fiscali e contributive molto onerose. Detto ciò, è probabile, vista la scarsa liquidità a disposizione, che molti piccoli imprenditori decideranno di onorare gli impegni con il fisco e di posticipare il pagamento della tredicesima, mettendo in difficoltà, loro malgrado, le famiglie dei propri dipendenti”.
Se le imprese in generale, è risaputo, non se la passano affatto bene, quelle piccole e medie sono già alla canna del gas. Il quadro generale, come ricorda la CGIA, è molto pesante: dall’inizio di quest’anno la contrazione dei prestiti bancari erogati alle imprese è stata di 26,7 miliardi di euro (pari al -2,7%), mentre le sofferenze in capo al sistema imprenditoriale sono aumentate di 8,7 miliardi di euro (pari al +10,9%). In entrambi i casi il periodo di riferimento è dicembre 2011-settembre 2012. Se consideriamo poi che la produzione industriale è scesa del 6,5% e gli ordinativi del 10,4% ( il periodo di riferimento è gennaio-settembre 2011/gennaio- settembre 2012), appare evidente che la situazione in capo alle imprese, soprattutto quelle di piccola dimensione, sia peggiorata drammaticamente. “I più fortunati, conclude il segretario dell’associazione, sono riusciti ad avere un piccolo prestito bancario grazie al fatto che hanno il negozio o il capannone di proprietà. Diversamente, chi non è in grado di offrire nessuna garanzia non ha alcuna chance di ottenere un finanziamento e l’unica strada percorribile è quella di dilazionare le uscite”.
Non va dimenticato, però, che proprio i capannoni saranno salassati dall’Imu che costerà agli imprenditori fino al 154,4% in più rispetto a quanto pagavano con l’Ici, con un aumento record per coloro i quali esercitano l’attività nel Comune di Milano (in media 2.331 euro). E le cose non andranno di certo meglio in altre parti d’Italia, se si considera che chi fa impresa nei comuni di Lucca e di Lecce, dovrà fare i conti con un incremento del 131,3%. Rispetto al 2011, infatti, gli imprenditori lucchesi pagheranno 1.158 euro in più, mentre quelli salentini subiranno un aggravio di ben 2.501 euro.
In una fase economica in cui i consumi sono in forte contrazione, il credito continua ad essere erogato con il contagocce e le tasse continuano ad aumentare, i titolari di attività imprenditoriali pagheranno l’imposta municipale due volte. Una come proprietari di prima casa e l’altra come proprietari di immobili ad uso commerciale o produttivo. Una doppia stangata che rischia di mandare loro gambe all’aria e centinaia di lavoratori in mezzo ad una strada.
05 Dicembre 2012 - Rinascita
Monti confessa: Non ho il piano di ripresa!
DI ANTONIO MICLAVEZ
Se andate al sito di Aljazeera, ascoltate l’intervista con Monti che si intitola: “Mario Monti: Italy is done with austerity” (video all’interno dell’articolo) che potrebbe significare o che l’Italia ha finito con l’Austerità, o piuttosto che l’Italia è finita a causa dell’austerità. Purtroppo la risposta giusta è la seconda. Ascoltare i primi 5 minuti dell’intervista. Il giornalista chiede a Monti che era andato a batter cassa nel Golfo: “Lei chiede che noi investiamo in un’Italia dal futuro roseo, ma adesso che ha creato l’austerity, è calato il denaro in circolazione, la gente è disoccupata… come farà a rilanciare l’economia? Qual’è il piano di rilancio dell’economia italiana?” Ed ecco come risponde un vero gentleman: ” In quanto la ripresa prevedeva il primo periodo di austerity, l’ austerity è parte integrante della ripresa e quindi l’ austerity è LA ripresa !!”
Incorniciatevela nella toilette per momenti di stipsi grave; leggerla può aiutare. In pratica, Monti NON HA RISPOSTO, e così facendo ha risposto che il piano di ripresa non ce l’ha, altrimenti lo avrebbe esposto. Monti è un vero professionista della non comunicazione; se gli chiedessero come mai la Commissione Europea in cui aveva avuto un ruolo dirigenziale dal 1999 ha dovuto chiudere per ammanchi di cassa di 7.000 miliardi, se gli chiedessero dove sono spariti quei soldi dirá: ma volevamo rimetterli in circolazione!
Andate su Wikipedia e cercate “Santer Commission”, vedete i 7.000 miliardi spariti; una commissione sulla commissione Santer, mandata a chiarire gli ammanchi , scrisse a un certo punto disperata a causa dei muri di gomma che si trovava di fronte: “It was becoming increasingly difficult to find anyone who had the slightest sense of responsibility.” E così la fecero chiudere. Per proseguire con le indagini che però non ci furono, poichè arrivò Prodi a chiudere la vicenda in silenzio. “In response to the report, PES withdrew their support from the Commission[8] and joined the other groups stating that unless the Commission resigned of its own accord, it would be forced to do so.[11] So, on the night of March 15, Santer announced the mass resignation of his Commission.” Ma mandare a casa i membri della Santers non era cosa facile: e giù tutto l’iter burocratico per cui i membri spendaccioni della commissione potevano esser richiamati solo dagli Stati che li avevano mandati a “lavorare”; gli Stati si rifiutavano di farli rientrare, così …. la Commissione fu forzata a sciogliersi, e i 7000 miliardi non si sa dove siano finiti. Responsabile: nessuno. Mario Monti commentò che la commissione si sciolse per colpa di qualcuno che non voleva assumersi le proprie colpe, ma pare che questa fosse la tesi anche degli altri componenti dell’allegro gruppo. Allegherei il fascicolo sulla Commissione Santers che fu pubblicato dopo 8 mesi di indagini, ma mi pare che non si possano fare allegati; non è stato facile trovarlo; lo danno sparito da più siti, ma se cercate lo trovate.
Guardate che bel titolo: “Allegations regarding Fraud, Mismanagment and nepotism in the European Commission”. E si commenta in fondo nelle conclusioni “nessun membro poteva esse
re all’oscuro di ciò che è accaduto”. E quindi neanche il Prof. Monti. Oddio, finchè metto al al posto della mia segretaria mia cugina, che magari è gnocca, chi se ne frega, ma SPARIRONO 7.000 MILIARDI di lire !!!!! Così come stanno sparendo i beni degli italiani e dell’Italia; Monti sa come si fa; dopotutto alla Bocconi sono i maghi della finanza creativa. Ma a parte qualche fatto passato non molto chiaro, MONTI NON HA IL PIANO DI RIPRESA !!!!!
L’unico piano di ripresa è l’Austerity in quanto, lo ha detto in tv nel filmato sopra, “L’austerity è LA ripresa”. Se invece vogliamo la ripresa vera, cacciamo questi sicari della finanza, nazionalizziamo le banche, ricusiamo il debito pubblico. O congeliamolo per 5 anni a interessi zero, poi si vedrà. Magari altri 5 o 10 anni, finchè non ci siamo ripresi. Se il piano di ripresa lo avesse, Monti lo avrebbe detto, ma con la gente a le aziende a terra come cazzo la si fa la ripresa adesso? Dai Prof Monti, Lei che ha studiato ci dica come si fa adesso che ci ha distrutti per benino. Ma forse parlava di ripresa bancaria, e allor tutto diventa chiaro. L’avevo sempre sospettato, ma c’è qualcuno che crede ancora ai giornali.
Come il mio amico carissimo ing Sandro Turello di Trieste che dice che Monti ha migliorato l’immagine dell’Italia: ha migliorato l’immagine agli occhi degli speculatori di borsa, del Wall Street Journal, dei banchieri che vedono ancora grasse vacche da mungere. Ma l’immagine vera dell’italia ce la facciamo con il Parmigiano che viene solo da noi, con la burrata pugliese che a NY costa un occhio della testa, con i vestiti di marca, con le musiche di Morricone, con Fellini… Insomma, col made in Italy. Il resto è foffa, truffa, fumo. Abbasso le banche, viva l’economia.
E come diceva Cicerone alla fine di ogni discorso, anche noi dovremmo chiudere ogni email con: “Ceterum censeo Bancam delenda est”. Ovvero, finchè non è distrutto questo sistema bancario (e il sud america ci dimostra che è fattibile), non ne usciamo vivi.
ps dimenticavo: magari qualcuno sa il piano di ripresa di Monti ??? Per piacere ce lo dica…..
Antonio Miclavez visto su Terra Real Time
I ventenni del Duemila sono schiacciati dalla finanza, insieme ai 40enni, 50enni 80enni nella Ue creata per essere il far west delle banche
L’insostenibile leggerezza del Basel III
Delle 28 maggiori banche al mondo soltanto sei sono in grado di rispettare i “parametri di Basilea”
Roberto Marchesi (Dallas - Texas)
Ho preso a prestito l’indovinato titolo del famoso libro di Milan Kundera (“L’insostenibile leggerezza dell’essere” n.d.r.) per commentare l’esplosiva situazione di rischio delle grandi banche, tuttora presa con eccessiva e irresponsabile leggerezza dai legislatori.
Come ho appena scritto nel mio articolo della scorsa settimana: “Il Tesoro Usa protegge le grandi banche d’affari dell’usura”, che aveva come sottotitolo “Il mercato dei derivati è una mina vagante destinata ad esplodere”, la situazione di rischio delle grandi banche non deve essere presa sottogamba nemmeno per un attimo, perché quello che è accaduto nel 2008 potrebbe essere solo una semplice “avvisaglia” di quello che accadrebbe presto o tardi se si lasciasse proseguire questo sciagurato trend del liberismo globale finanziario,.
Fanno a gara, gli ex ministri finanziari delle varie potenze economiche mondiali (vedi Tremonti ieri e Monti ... domani) a non far nulla finché sono al potere, per prendersi poi la libertà di scrivere libri (guadagnandoci anche su quelli) dove condannano (dando la colpa ad altri ovviamente) quello che loro non hanno saputo fare, o perlomeno denunciare quando erano al potere.
Ma andiamo con ordine. Cos’è il “Basel III”? In linea generale i lettori di questo quotidiano lo sanno già abbastanza bene, perché diversi articoli qui ne parlano con regolare frequenza, ma la materia è molto ampia e abbastanza complessa, allora vediamo in particolare la regola che interessa più da vicino questa analisi, cioè la regola sulla capitalizzazione delle banche. La regola è che più una banca è capitalizzata e minore è il rischio che possa cadere in default in tempo di crisi (perché potrebbe coprire col proprio capitale un maggior volume di eventuali perdite).
Però capitalizzare una banca impegna denaro, toglie risorse alla banca stessa (se provenienti dall’autofinanziamento) o comunque riduce il parametro di remunerazione del capitale (R.O.E.) che è calcolato nella quota di utile destinato ai dividendi sul Capitale Netto, rendendo quindi meno appetibile il titolo della banca sul mercato. (Ricordo che togliere risorse per destinarle all’autofinanziamento, benché sia cosa buona in momenti economici normali, per una banca, in questo disgraziato periodo di crisi, significa togliere risorse all’attività di finanziamento alle imprese produttive e alle attività commerciali, che in questo momento ne avrebbero invece disperato bisogno).
E invece è proprio ciò che il Basel III fa, con regole rigide che impongono alle banche una capitalizzazione che negli ultimi due anni è già passata dal minimo previsto in precedenza del 2% (nel Basel I e Basel II), al 3,5% da raggiungere entro la fine di quest’anno (ma sembra che molte banche non riusciranno a rispettare questo parametro), al 4,5% entro il 2015, infine al 7% entro il 2019.
E qui dovrebbe già apparire con chiarezza il perché del titolo contradditorio di questo articolo. “Insostenibile” è infatti l’esatto termine con il quale definire il parametro di capitalizzazione richiesto alle banche. È in piena evidenza che le grandi banche (quelle con operatività a livello globale) capaci di raggiungere il parametro richiesto dal Basel III senza trovarsi in grave crisi di liquidità sono pochissime (6 su 28). Le altre non ce la fanno, perché in questo momento di crisi nessuno vuole investire in banche in crisi di liquidità e con indicatori di redditività (R.O.I.) miserevoli. Tuttavia non è un caso che quelle che ce la fanno sono proprio le stesse banche che investono maggiormente nei prodotti finanziari ad alto rischio ed alta volatilità. Quindi sono anche quelle che contengono intrinsecamente i maggiori rischi di default in caso di crolli a catena se salta l’attuale delicato equilibrio.
E qui entra in gioco l’altra metà del titolo di questo articolo. “Leggerezza” è infatti riferito alla consistenza del capitale proprio delle banche. Se salta il banco, come è successo nel 2008, non basterà certo quel 7% di capitalizzazione imposto alle banche dal Basel III, ammesso e non concesso che nel frattempo lo abbiano raggiunto.
Bloomberg View e altri studi (Stanford University, David Miles della Bank of England, ecc.) sostengono che ci vorrebbe una capitalizzazione di almeno il 20% per questo tipo di banche così sovraesposte sui derivati finanziari. E qui è bene sapersi che nulla è stato fatto finora (salvo i “pannicelli caldi” degli accordi di Basilea) per evitare il “too big to fail”. Anche il parametro del 7% non sarebbe bastato a salvare le grandi banche dal fallimento, nel 2008, senza il sostegno incondizionato della Banca Centrale e del Tesoro dei paesi colpiti dalla crisi.
Giustamente il governatore della Banca d’Inghilterra Mervyn A. King (che lascerà l’incarico la prossima estate) dice che intanto si potrebbe ridurre di un tantino la retribuzione e i bonus dei grandi managers di queste banche e dirottare quei soldi a capitalizzare le loro banche, che ne hanno maggior bisogno.
Ottima idea, ma servirebbe solo ad equilibrare un poco i sacrifici imposti alla gente comune proprio dalle avventurose speculazioni di questi avvoltoi della finanza, non servirebbe, come abbiamo visto sopra, a risolvere il problema della estrema sottocapitalizzazione di queste banche.
Anche il tentativo di dare un “peso specifico” diverso alle varie poste di bilancio di queste banche, al fine di calcolare il “saggio” di capitalizzazione in modo tecnico più appropriato e coerente con i rischi connessi, non è sufficiente a risolvere il problema. Riesce solo a misurarlo un po’ meglio (rendendo però complicate e lunghe le regole da osservare) ma rimane comunque ampiamente inadeguato a coprire il rischio.
L’unica strada vera e sicura (ha funzionato benissimo per oltre 50 anni, e non c’era ancora la marea di derivati che circola adesso) è quella di tornare alla netta separazione delle attività tra banche ordinarie e banche d’affari (o Istituti a Medio Termine, come era in Italia fino agli anni 90). O almeno, adottare la proposta lanciata recentemente dal presidente francese Hollande, di separare all’interno della stessa banca, ma con capitalizzazioni separate, le attività bancarie speculative da quelle ordinarie (vedasi Rinascita del 20 novembre scorso: “Francia in guerra contro gli speculatori”).
I banchieri non sono disposti a cedere nemmeno un millimetro del loro potere, ma parafrasando Georges Clemenceau si potrebbe dire oggi che la politica delle banche è diventata cosa troppo seria per lasciarla fare ai banchieri.
05 Dicembre 2012 - Rinascita
Roberto Marchesi (Dallas - Texas)
Ho preso a prestito l’indovinato titolo del famoso libro di Milan Kundera (“L’insostenibile leggerezza dell’essere” n.d.r.) per commentare l’esplosiva situazione di rischio delle grandi banche, tuttora presa con eccessiva e irresponsabile leggerezza dai legislatori.
Come ho appena scritto nel mio articolo della scorsa settimana: “Il Tesoro Usa protegge le grandi banche d’affari dell’usura”, che aveva come sottotitolo “Il mercato dei derivati è una mina vagante destinata ad esplodere”, la situazione di rischio delle grandi banche non deve essere presa sottogamba nemmeno per un attimo, perché quello che è accaduto nel 2008 potrebbe essere solo una semplice “avvisaglia” di quello che accadrebbe presto o tardi se si lasciasse proseguire questo sciagurato trend del liberismo globale finanziario,.
Fanno a gara, gli ex ministri finanziari delle varie potenze economiche mondiali (vedi Tremonti ieri e Monti ... domani) a non far nulla finché sono al potere, per prendersi poi la libertà di scrivere libri (guadagnandoci anche su quelli) dove condannano (dando la colpa ad altri ovviamente) quello che loro non hanno saputo fare, o perlomeno denunciare quando erano al potere.
Ma andiamo con ordine. Cos’è il “Basel III”? In linea generale i lettori di questo quotidiano lo sanno già abbastanza bene, perché diversi articoli qui ne parlano con regolare frequenza, ma la materia è molto ampia e abbastanza complessa, allora vediamo in particolare la regola che interessa più da vicino questa analisi, cioè la regola sulla capitalizzazione delle banche. La regola è che più una banca è capitalizzata e minore è il rischio che possa cadere in default in tempo di crisi (perché potrebbe coprire col proprio capitale un maggior volume di eventuali perdite).
Però capitalizzare una banca impegna denaro, toglie risorse alla banca stessa (se provenienti dall’autofinanziamento) o comunque riduce il parametro di remunerazione del capitale (R.O.E.) che è calcolato nella quota di utile destinato ai dividendi sul Capitale Netto, rendendo quindi meno appetibile il titolo della banca sul mercato. (Ricordo che togliere risorse per destinarle all’autofinanziamento, benché sia cosa buona in momenti economici normali, per una banca, in questo disgraziato periodo di crisi, significa togliere risorse all’attività di finanziamento alle imprese produttive e alle attività commerciali, che in questo momento ne avrebbero invece disperato bisogno).
E invece è proprio ciò che il Basel III fa, con regole rigide che impongono alle banche una capitalizzazione che negli ultimi due anni è già passata dal minimo previsto in precedenza del 2% (nel Basel I e Basel II), al 3,5% da raggiungere entro la fine di quest’anno (ma sembra che molte banche non riusciranno a rispettare questo parametro), al 4,5% entro il 2015, infine al 7% entro il 2019.
E qui dovrebbe già apparire con chiarezza il perché del titolo contradditorio di questo articolo. “Insostenibile” è infatti l’esatto termine con il quale definire il parametro di capitalizzazione richiesto alle banche. È in piena evidenza che le grandi banche (quelle con operatività a livello globale) capaci di raggiungere il parametro richiesto dal Basel III senza trovarsi in grave crisi di liquidità sono pochissime (6 su 28). Le altre non ce la fanno, perché in questo momento di crisi nessuno vuole investire in banche in crisi di liquidità e con indicatori di redditività (R.O.I.) miserevoli. Tuttavia non è un caso che quelle che ce la fanno sono proprio le stesse banche che investono maggiormente nei prodotti finanziari ad alto rischio ed alta volatilità. Quindi sono anche quelle che contengono intrinsecamente i maggiori rischi di default in caso di crolli a catena se salta l’attuale delicato equilibrio.
E qui entra in gioco l’altra metà del titolo di questo articolo. “Leggerezza” è infatti riferito alla consistenza del capitale proprio delle banche. Se salta il banco, come è successo nel 2008, non basterà certo quel 7% di capitalizzazione imposto alle banche dal Basel III, ammesso e non concesso che nel frattempo lo abbiano raggiunto.
Bloomberg View e altri studi (Stanford University, David Miles della Bank of England, ecc.) sostengono che ci vorrebbe una capitalizzazione di almeno il 20% per questo tipo di banche così sovraesposte sui derivati finanziari. E qui è bene sapersi che nulla è stato fatto finora (salvo i “pannicelli caldi” degli accordi di Basilea) per evitare il “too big to fail”. Anche il parametro del 7% non sarebbe bastato a salvare le grandi banche dal fallimento, nel 2008, senza il sostegno incondizionato della Banca Centrale e del Tesoro dei paesi colpiti dalla crisi.
Giustamente il governatore della Banca d’Inghilterra Mervyn A. King (che lascerà l’incarico la prossima estate) dice che intanto si potrebbe ridurre di un tantino la retribuzione e i bonus dei grandi managers di queste banche e dirottare quei soldi a capitalizzare le loro banche, che ne hanno maggior bisogno.
Ottima idea, ma servirebbe solo ad equilibrare un poco i sacrifici imposti alla gente comune proprio dalle avventurose speculazioni di questi avvoltoi della finanza, non servirebbe, come abbiamo visto sopra, a risolvere il problema della estrema sottocapitalizzazione di queste banche.
Anche il tentativo di dare un “peso specifico” diverso alle varie poste di bilancio di queste banche, al fine di calcolare il “saggio” di capitalizzazione in modo tecnico più appropriato e coerente con i rischi connessi, non è sufficiente a risolvere il problema. Riesce solo a misurarlo un po’ meglio (rendendo però complicate e lunghe le regole da osservare) ma rimane comunque ampiamente inadeguato a coprire il rischio.
L’unica strada vera e sicura (ha funzionato benissimo per oltre 50 anni, e non c’era ancora la marea di derivati che circola adesso) è quella di tornare alla netta separazione delle attività tra banche ordinarie e banche d’affari (o Istituti a Medio Termine, come era in Italia fino agli anni 90). O almeno, adottare la proposta lanciata recentemente dal presidente francese Hollande, di separare all’interno della stessa banca, ma con capitalizzazioni separate, le attività bancarie speculative da quelle ordinarie (vedasi Rinascita del 20 novembre scorso: “Francia in guerra contro gli speculatori”).
I banchieri non sono disposti a cedere nemmeno un millimetro del loro potere, ma parafrasando Georges Clemenceau si potrebbe dire oggi che la politica delle banche è diventata cosa troppo seria per lasciarla fare ai banchieri.
05 Dicembre 2012 - Rinascita
Il Tesoro Usa protegge le grandi banche d’affari dell’usura
Nuova fiammata speculativa in derivatiRoberto Marchesi (Dallas - Texas)
Dopo i disastri e le macerie lasciati sul campo dell’economia globale dall’esplosione della bolla finanziaria partita dai subprime mortgages, tutte le persone di buonsenso si aspettavano che una seria riforma del mercato dei derivati finanziari venisse approvata dalle maggiori piazze finanziarie mondiali, America in primis, visto che da quella piazza è partita ed è scoppiata la bolla, e visto che, attraverso le sue grandi banche, è quella che ancora oggi controlla gran parte di questo mercato.
Invece la normativa che dovrebbe regolare questo difficile mercato continua a fare passi indietro anziché in avanti. Infatti nel 2010, quando il Congresso era ancora a maggioranza democratica in entrambe le camere, Barney Frank, capo della Commissione Finanze della Camera e Christopher J. Dodd (insieme nella foto), capo della medesima Commissione al Senato, portarono a compimento, e alla firma finale di Obama, la legge di riforma “Dodd-Frank” che, tra le altre cose, indicava l’indirizzo legislativo per attuare la riforma stessa.
Infatti, dato che la materia dei derivati finanziari era fino a quel momento quasi completamente senza regole, e dato che il mercato dei derivati aveva già raggiunto cifre di diversi trilioni di dollari, non era possibile (questa almeno era la motivazione addotta) legiferare con mano pesante per regolare di botto il mercato senza creare contraccolpi anche più gravi di quelli possibili lasciando le cose invariate.
Così la legge, invece che dire cosa si può o cosa non si può fare, interveniva a definire con maggiore chiarezza i prodotti finanziari e a rendere obbligatorio il loro passaggio attraverso una “Clearing House”, cioè una specie di Borsa dotata di personale e strumenti adeguati capace di controllare che milioni di operazioni sui derivati vengano fatte secondo le regole via via attivate e secondo la massima trasparenza (Vedasi Rinascita del 22-12-2010: “Inter Continental Exchange: la congrega delle banche d’affari”). Il controllo di merito sulle Clearing Houses veniva affidato dalla legge alla “Security Exchange Commission” (S.E.C.) e alla “Commodity Futures Trading Commission” (CFTC) per le loro aree finanziarie di competenza.
La sconfitta elettorale dei democratici nelle elezioni di medio-termine del 2010 diede già un primo duro colpo alla speranza che la “Dodd-Frank” producesse davvero risultati apprezzabili nel controllo dei derivati finanziari. Infatti i repubblicani, strenui “difensori del mercato libero”, che adesso controllavano con ampia maggioranza la “Camera dei Rappresentanti” al Congresso, si opponevano in vari modi a qualsiasi cosa potesse creare ostacolo a tale libertà. Non potendo fare una legge capace di annullare la Dodd-Frank (dato che Obama non l’avrebbe firmata) si accontentavano di boicottare ogni cosa che potesse rendere operativa la legge esistente. La cosa più semplice, grazie anche alla politica di austerità imposta a tutto il paese, era quella di far mancare i fondi necessari a S.E.C. e C.F.T.C per organizzarsi adeguatamente. È impensabile infatti sperare di controllare soggetti dotati dei più sofisticati strumenti elettronici (supercomputers, ecc.) e delle più evolute metodologie, senza possederne di uguali. Ma questi strumenti sono costosissimi e ai due “guardiani” i fondi non sono stati mai fatti arrivare. Quindi l’unica cosa che oggi sono in grado di fare è solo controllare che le transazioni finanziarie sui derivati passino effettivamente dalla “Clearing House” senza possibilità, salvo qualche controllo a campione, di entrare nel merito.
Ma ora arriva anche la notizia che il Dipartimento del Tesoro (retto per ora ancora da Geithner) ha deciso di fluidificare ulteriormente questo controllo, escludendo alcuni derivati finanziari esteri dalla normativa della Dodd-Frank. Il motivo (si dice nella decisione del Tesoro) è che i derivati esclusi sono già sufficientemente “trasparenti” e che ogni tentativo di manipolazione sarebbe illegale.
La realtà è che, escludendo certi tipi di derivati finanziari dalla normativa, consentirebbe alle “volpi” del mercato di strutturare una buona parte anche di quelli che non sono esclusi in modo da farli rientrare nella normativa.
Riprende quindi quota in questo modo il rischio che un numero troppo elevato di operazioni non controllate possa determinare perdite troppo forti per lasciar fallire il soggetto che ne è colpito, riportando perciò a galla quel “too big to fail” che i più speravano sepolto per sempre.
Si ricorda al proposito che nel 2008 fu lasciata fallire solo la Lehman Brothers, ma tutte le altre grandi banche vennero salvate con i soldi dei contribuenti per decine di miliardi di dollari. La sola A.I.G. (American International Group), chiamata a rimborsare le perdite generate da milioni di operazioni “Swap” venne salvata dal Tesoro (tramite la Federal Reserve) con una iniezione di $182/mld. in denaro liquido e con un continuo sostegno sia finanziario che a garanzia degli impegni assunti.
Con la corrente decisione del Tesoro di allentare di nuovo i controlli sui derivati finanziari, invece che di intensificarli, si è perciò tornati a correre verso il baratro. La Dodd-Frank già esclude dalla propria normativa le piccole banche, cioè quelle con massimo 10 miliardi di dollari di patrimonio, ma le banche premono per portarlo a 50 miliardi.
Comunque, dato che non sarebbe sufficiente ad escludere le grandi banche (JPMorgan Chase & Co, Bank of America, Citigroup, HSBC e Goldman Sachs) dal controllo della Dodd-Frank, i grandi lobbisti si danno da fare per trovare subito altre vie d’uscita.
Le operazioni sui derivati finanziari sono quelle che consentono alle grandi banche di fare i maggiori guadagni, quindi sarà molto difficile che qualcuno riesca a convincerle a ridurre questa attività. Però il mercato dei derivati è tuttora in rapida crescita. Oggi è calcolato in circa 650 trilioni di dollari (1 trilione equivale a mille miliardi). Tanto per fare un paragone si ricorda che l’intero debito Usa, al confronto, è piccola cosa essendo di “soli” 16 trilioni circa.
Le regole a metà, come quelle che stanno attuando in questo mercato di pazzi, faranno addirittura più male che bene, perché avranno reso più esigibili le perdite nel caso di un nuovo crollo del mercato come accadde nel 2008.
La prossima volta perciò chi potrà fermare una bolla da 650.000.000.000.000 (seicentocinquantamilamiliardi) di dollari che presenterà l’uno contro l’altro, intrecciandosi all’impazzata, miliardi di pretese di rimborso che nessuno potrà davvero garantire né tantomeno rimborsare?
Loro navigano su una mina vagante e continuano a giocare invece che tentare seriamente di renderla innocua. Ma nello stesso mare ci siamo anche noi.
01 Dicembre 2012 - Rinascita
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