Oh sì. Le cooperative credono molto nella "carta dei valori", soprattutto del contante del risparmiatore.
Riprendendo le parole di Paolo Cardenà "La risposta è
semplice da trovare: il PD non è un partito di sinistra. Sia
ben chiaro: non è neanche un partito di centro e neanche un
partito di destra. Il Pd è nulla di tutto questo. Il PD è
caos, irrazionalità, mercantilismo, parassitismo,
corporativismo, lobbismo, clientelismo. Insomma, è tutto
tranne che un partito." da A proposito del Pd che consiglio di leggere integralmente per comprendere "i valori"....D'altra parte, "gli altri" (qualunque avversario politico è cattivo e "pericoloso", solo loro stranamente sono i "giusti").
Barbara
14 Ottobre 2013 Scritto da Redazione
Le cooperative
sono diventate ormai banche d'affari che raccolgono
risparmio - pur non essendo sottoposte ad alcuna vigilanza -
e si lanciano in rischiose operazioni finanziarie e chiudono
i bilanci in perdita. Le "nove sorelle" si sono inguaiate
investendo chi su Unipol, chi su Monte dei Paschi. E hanno
partecipato al tentativo di salvare la Fonsai di Ligresti.
Potremmo parlare di banca
clandestina, se non fosse tutto alla luce del sole. Basta
entrare in un supermercato Coop e diventare socio (che è come
fare la tessera sconto in qualsiasi catena) per depositare i
propri risparmi. Le nove grandi cooperative del consumo
raccolgono ben 10,4 miliardi di euro. Sarebbe vietato: non è
che un giorno uno si sveglia di buon umore, apre una banca e
comincia a farsi affidare i risparmi dei passanti. La Coop infatti lo chiama “prestito soci”,
senza però spiegare al popolo che il prestito soci è un
capitale messo a rischio nell’impresa che, sia essa una
coop o una società di capitali, lo usa per la sua
attività, come aprire un supermercato.
Infatti accadono sotto gli occhi di
tutti, comprese le autorità di vigilanza, due cose strane. La prima è che le Coop utilizzano i
risparmi dei loro soci non per mettere scaffali nuovi, ma
per dedicarsi alla speculazione finanziaria. Esempio:
l’Unicoop Firenze, la maggiore per fatturato (ben 3
miliardi di euro), ha in bilancio immobilizzazioni
tecniche (ciò che serve per funzionare) per 2 miliardi e
debiti verso i soci per 2,3 miliardi. Ma il debito
complessivo è di 3 miliardi. Che ci fa la Coop con tutti
quei soldi? Unicoop Firenze ha in bilancio 644 milioni di
immobilizzazioni finanziarie: una vera merchant bank.
I conti in rosso
degli uomini al potere da decenni. La seconda
stranezza è che queste banche d’affari a marchio Coop non
sono sottoposte ad alcuna vigilanza. La Banca d’Italia controlla le banche
propriamente dette, ma le Coop non se le fila nessuno, punto
e basta. Negli ultimi anni, complice la crisi e nella
disattenzione generale, si sono messe nei guai. L’anno scorso le
“nove sorelle” (oltre 12 miliardi di fatturato, con 50 mila
dipendenti e sette milioni di soci in tutto) hanno chiuso i
loro bilanci in rosso per complessivi 135 milioni di euro, e
proprio per colpa della finanza.
Ma prima di entrare nei dettagli di
un disastro annunciato è bene spiegare il peculiare sistema di
potere che consente ai boss delle coop di non rendere conto a
nessuno. Il mondo delle
cooperative cosiddette rosse ha seguito nel Dopoguerra uno
schema sensato: le aziende sono cresciute sotto l’ombrello
del Pci, che le governava attraverso la Legacoop,
nominalmente un sindacato d’impresa, come la
Confindustria, di fatto una sorta di holding attraverso la
quale i vertici di Botteghe Oscure sceglievano strategie e
manager.
Dopo la caduta del Muro di Berlino
e la fine del Pci decisa da Achille Occhetto nel 1989, il
potere del partito si è dissolto e i capi delle cooperative
sono diventati padroni assoluti, proprio come gli oligarchi
russi che si sono appropriati delle aziende alla fine del
regime sovietico. L’uomo simbolo di questo
curioso fenomeno italiano è Turiddo Campaini, presidente di
Unicoop Firenze dal 1973, cioè da 40 anni. Non c’è alcun
meccanismo di controllo e nessuno lo può mandare a casa. I
soci sono un milione e 200 mila, ma di essi solo 1288 (uno su
mille, verosimilmente amici, dipendenti e sottoposti di
Campaini) si sono presentati alle 39 assemblee decentrate che
hanno approvato il bilancio. Tutti i colleghi di Campaini sono
uomini di potere a 24 carati, che si scelgono in autonomia le
amicizie politiche di riferimento. Il presidente della Coop Centro Italia,
Giorgio Raggi, ex sindaco di Foligno, ha investito i soldi
della cooperativa nella Edib, editrice del Corriere
dell’Umbria nella fase in cui il quotidiano era nella
sfera di Denis Verdini, e ha perso tutto. Recentemente si
è fatto intercettare con la sua sodale di sempre, Maria
Rita Lorenzetti, oggi agli arresti domiciliari, mentre si
rammaricava di non essere potuto intervenire in tempo per
bloccare un articolo de La Nazione sgradito alla zarina
umbra.
Ma lei
cerca lui perché la Coop è la seconda azienda dell’Umbria
dopo la Thyssen, e gli chiede di assumere la parente del
consulente ministeriale che con la zarina sta curando gli
interessi della Coopsette nei lavori Tav di Firenze.
Torniamo a parlare di soldi. Le
Coop impiegano gli oltre 10 miliardi del prestito dei soci in
operazioni finanziarie, dai Bot alla Borsa. Nel 2012 erano
immobilizzati in partecipazioni azionarie 2,2 miliardi di
euro. Siccome è buona regola non investire in Borsa i soldi
presi in prestito (perché se crollano i listini fai la fine di
Romain Zaleski), se la Banca d’Italia vigilasse sull’uso del
pubblico risparmio fatto in casa Coop controllerebbe il
rapporto tra partecipazioni azionarie e patrimonio netto (che
è la somma di capitale sociale e riserve, cioè il vero
patrimonio che fa da garanzia per gli investimenti a rischio).
Consorte ha tracciato il solco e
gli Stefanini lo difendono. Ebbene, le nove Coop hanno
partecipazioni azionarie per 2,2 miliardi e un patrimonio
netto di 6 miliardi. Mediobanca ha lo stesso rapporto: 2,6
miliardi su un patrimonio netto di 7. Solo che
Mediobanca è una banca d’affari, la Coop una catena di
supermercati. Come mai? Il fatto è che gli oligarchi delle
Coop sono rimasti abbagliati dall’esempio di Gianni
Consorte, padre-padrone dell’Unipol che otto anni fa tentò
senza successo la scalata alla Bnl. E siccome gli azionisti
di controllo dell’Unipol erano e sono proprio le grandi
coop, quando Consorte fu sconfitto i suoi colleghi,
fraternamente, lo cacciarono. Pierluigi Stefanini, oligarca
storico della Coop Adriatica, salì al vertice dell’Unipol. E
i manager-padroni hanno ricominciato a giocare con la
finanza, spaccandosi però in due fazioni, i cosiddetti
toscani e i cosiddetti emiliani. I primi si sono fatti male
con il Monte dei Paschi, i secondi con l’Unipol.
I “toscani” sono tre cooperative:
Unicoop Firenze, Unicoop Tirreno e Coop Centro Italia. L’empolese Campaini, leader della corrente
toscana, si scontrò a suo tempo con Consorte e non ha più
voluto saperne di mettere soldi su Unipol. Ha preferito
investire sul Monte dei Paschi, usando i risparmi dei soci
per salvaguardare la “toscanità” (testuale) della banca
senese. Ha speso
oltre 400 milioni e ne ha persi circa 300, e nessuno
ovviamente protesta. Unicoop
Tirreno e Coop Centro Italia non stanno meglio. Insomma, nel
2012 le tre coop che coprono Toscana, Umbria, Lazio e Abruzzo
hanno perso in tutto oltre 200 milioni, dopo aver segnato in
bilancio 323 milioni di svalutazioni delle azioni possedute.
La Coop umbra presieduta da Raggi
ha fatto addirittura strike, riuscendo a perdere soldi sia sul
Montepaschi sia sulla Popolare di Spoleto (commissariata con
vertici arrestati). Il capolavoro di Raggi è stato vendere una
ventina di supermercati al Fondo Etrusco, società immobiliare
del Monte dei Paschi e dell’ex vicepresidente della banca
senese, Francesco Gaetano Caltagirone, per non vendere le
azioni del Monte dei Paschi, considerate “strategiche” (che
non vuol dire niente ma suona bene). Così adesso le azioni non
valgono quasi più niente, ma ogni anno la Coop paga milioni in
affitti al Fondo Etrusco, di cui però ha preso delle quote,
cosicché partecipa alla speculazione contro se stessa.
Le sei
cooperative del nord, che hanno in Emilia il loro
epicentro, si sono invece inguaiate con l’Unipol.
La compagnia assicurativa bolognese, trascinata da Mediobanca
nel rischiosissimo salvataggio della Fonsai di Ligresti, fa
capo alla holding Finsoe, a sua volta posseduta dalle coop del
consumo insieme alla Holmo, scatola che riunisce le quote
delle coop di costruzioni, l’altra gamba del potere
cooperativo. Se al Centro si sono immolate per la “toscanità”,
al Nord le coop sono state sacrificate all’ottimismo degli
oligarchi. Le azioni
Unipol valgono in Borsa circa 3,5 euro, ma il sistema
cooperativo le tiene in bilancio a 10 euro. Il che
significa che Finsoe segna le Unipol all’attivo del suo
bilancio per 2,2 miliardi quando in Borsa valgono appena
800 milioni: mancano all’appello 1,4 miliardi, evaporati
in questi anni in nome del mitico aggettivo: il controllo
di Unipol è “strategico”.
Quando è arrivato da Mediobanca
l’ordine di salvare Fonsai, oligarchi di primo livello hanno
obbedito con entusiasmo: per esempio Ernesto Dalle Rive di
Novacoop, Marco Pedroni di Coop Nord Est (ma presidente anche
di Finsoe) e Mario Zucchelli di Coop Estense, tutti e tre
consiglieri d’amministrazione di Unipol, non si sono fatti
pregare per immolare i soldi dei soci al salvataggio dei
crediti di Mediobanca e Unicredit verso i Ligresti. Siccome si
trattava di far scucire a Finsoe 429 milioni per l’aumento di
capitale di Unipol, non solo i “toscani” ma anche grandi
cooperative di costruzioni come Cmb e Coopsette si sono tirate
indietro e hanno lasciato alle consorelle del consumo,
presunte ricche, il conto da pagare. Come nei salotti buoni,
anche dentro il mondo coop l’oligarchia è ormai devastata
dalle guerre intestine propiziate dall’anarchia.
Il mistero della Manutencoop che
non voleva pagare per Unipol. Illuminante il caso della
Manutencoop, uno dei maggiori azionisti di Unipol. Quando
partì la chiamata alle armi di Mediobanca, Claudio Levorato,
presidente da una trentina d’anni di una cooperativa che ha
oggi 15 mila dipendenti e circa un miliardo di fatturato,
rispose seccamente alla domanda se avrebbe messo mano al
portafoglio: “Lo escludo
categoricamente, Manutencoop non distoglierà risorse dal
proprio core business”. Pochi mesi dopo Levorato ha pagato
anche per le coop che si erano rifiutate, inneggiando
all’operazione (indovinate?) “strategica”. Alla domanda se
svenarsi per salvare la Fonsai non fosse una mossa
rischiosa, Levorato ha opposto una risposta sibillina: “Se
non l’avessimo fatta ci sarebbero stati dei problemi”.
Per obbedire a Mediobanca e
Unicredit gli oligarchi hanno svenato le proprie coop. La
Finsoe, non bastando i 300 milioni chiesti alle coop per
l’aumento di capitale Unipol, ha aumentato i suoi debiti con
le banche. E poche settimane fa la trimurti delle “banche di
sistema” (Mediobanca, Intesa e Unicredit) ha soccorso
Manutencoop collocando sui mercati internazionali un prestito
obbligazionario da 450 milioni (quasi metà del fatturato) al
tasso effettivo dell’8,75 per cento. Siamo ai limiti
dell’usura e ciò illumina quanto sia conciata male la coop di
Levorato. Ma da quando non c’è più il Pci le coop sono rimaste
orfane, e gli oligarchi ormai si affidano ai salotti del
capitalismo che una volta dicevano di voler combattere.
Adesso, sempre in ritardo, fanno a gara a chi si integra
meglio in un sistema in declino.
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