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giovedì 16 settembre 2010

La BCE: avanti col taglio ai salari e la precarizzazione

Un'analisi delle proposte draconiane esposte dalla BCE nel suo Bollettino Mensile di Luglio

Il processo di costruzione dell'Unione Europea, che aveva ricevuto un forte impulso nel decennio seguito al crollo dell'URSS e dei paesi del “socialismo reale”, ha incontrato nell'ultimo decennio una serie crescente di difficoltà. Dalla bocciatura del Trattato Costituzionale Europeo nei paesi in cui il Trattato è stato sottoposto alla consultazione popolare fino all'incapacità di adottare scelte omogenee di politica economica di fronte alla crisi, la costruzione di quello che avrebbe dovuto essere un “polo” capace di competere con gli altri poli internazionali (e principalmente con gli USA) si trova obbiettivamente in una situazione “di stallo”.

La sola costruzione che è andata in porto è quella monetaria (l'Euro) che rappresenta, al momento, il solo elemento di “unità” europea, tra l'altro sempre più frequentemente messo in discussione; di conseguenza, l'unica istituzione europea attiva è la Banca Centrale Europea (BCE).

Risulta quindi importante analizzare le proposte della BCE per capire l'“Europa reale” (non quella “virtuale” descritta nei trattati e tanto meno quella “sociale” vagheggiata dai partiti della “sinistra”); il “focus” di questo intervento è quello di commentare alcuni elementi che riguardano le politiche del lavoro.

Il Bollettino Mensile di Luglio della BCE afferma che, per fronteggiare la crisi, quasi tutti i paesi europei hanno attuato politiche per la riduzione dell'occupazione, sviluppando le esistenti politiche di sostegno al reddito per i disoccupati. Queste misure hanno permesso di attutire temporaneamente gli effetti sociali della crisi, ma la BCE ritiene che sia arrivato il momento di rimuoverle

“...poiché alcune producono effetti indesiderabili sulle prospettive dell’occupazione a più lungo termine, il ritiro tempestivo di molte di queste contribuirebbe ad accelerare il processo di ristrutturazione”.

La BCE osserva che, in realtà, grazie a quelli che in Italia si chiamano “ammortizzatori sociali”, più che di riduzione dell'occupazione dovremmo parlare di riduzione dell'orario settimanale (beninteso, riduzione dell'orario con riduzione del salario, com'è per i cosiddetti “contratti di solidarietà”) e lamenta il fatto che i salari non sono diminuiti in modo equivalente alla diminuzione dell'occupazione

“In prospettiva, è prevedibile che l’occupazione continui a scendere nel 2010, sebbene a tassi inferiori rispetto al passato. Dato il considerevole margine di espansione del numero di ore lavorate, a più lungo termine esiste il rischio che la creazione di posti di lavoro sia insufficiente a ridurre la disoccupazione per un periodo di tempo significativo se la moderazione della dinamica salariale non sarà sufficiente a stimolare la domanda di lavoro”.

Traduzione: per creare posti di lavoro che recuperino (anche se solo in parte) quelli persi bisogna abbassare i salari.

“Le riforme sul piano delle politiche dovrebbero essere ora orientate ad agevolare la ristrutturazione e generare una crescita dell’occupazione sufficiente ad assorbire i lavoratori attualmente in esubero. Gli sforzi intesi a ridurre il dualismo del mercato del lavoro in molti paesi dovrebbero concentrarsi su un aumento della mobilità e della flessibilità del mercato del lavoro, più che sulla ricerca di una maggiore protezione per i lavoratori a tempo determinato”.

Traduzione: per convincere i padroni “incerti” ad assumere bisogna flessibilizzare i lavoratori che hanno qualche residua garanzia piuttosto che darne a quelli che non ne hanno.

Qui siamo al di sotto anche della cosiddetta “flexsecurity” di Pietro Ichino & co. che vorrebbero, sì, peggiorare le condizioni dei lavoratori che hanno ancora qualche diritto, ma trasferendone una qualche microscopica quota agli attuali precari. In questa differenza - più che altro formale - si manifesta il diverso punto di vista tra un Ichino e la BCE. Un Ichino ragiona quasi come un politico ponendosi il problema della reazione sociale che potrebbe prodursi per effetto di un azzeramento generalizzato di diritti e di una corrispondente riduzione massiccia di salario. I tecnocrati della BCE ragionano per schemi più rigidi, di carattere puramente contabile. Ma la ricetta è, nella sostanza, la medesima.

Le posizioni della BCE sulle politiche del lavoro hanno suscitato qualche reazione sdegnata come era successo per le proposte di “ristrutturazione” che la BCE aveva suggerito ai cosiddetti PIIGS, ovvero ai paesi europei “a rischio crack” (controriforme pensionistiche e del welfare, riduzione del debito pubblico e delle prestazioni sociali, ecc... -); le proposte della BCE sono state etichettate come “liberiste” e assimilate alle cd “politiche di aggiustamento strutturale” che il FMI impone ai paesi che strangola in cambio dei suoi aiuti e dei suoi “salvataggi”.

Ma per quanto ignobile, la ricetta BCE per il mondo del lavoro ha una sua “coerenza”.
In epoca di crisi è necessario distruggere capitale (in questo caso, capitale variabile, come lo avrebbe chiamato Karl Marx) per rialzare il saggio di profitto. Si fa lavorare di più un numero minore di lavoratori ovvero si aumenta la produttività e con la scusa della crisi si cerca anche non di “incentivarla” (magari economicamente), ma di imporla brutalmente, mettendo sul piatto il semplice ricatto sull'occupazione. Non è forse questo il ricatto che Marchionne vuole imporre agli stabilimenti italiani della FIAT? Non era questo il senso del “referendum” a Pomigliano? “C'è la crisi...”, “il lavoro manca e se lo volete dovete accettare di prenderlo alle condizioni a cui lo prendono in Polonia, in Serbia o alla Chrysler...” e “se non accetti sei uno sfaccendato irresponsabile e chiudo lo stabilimento...”.

Le proposte della BCE suggeriscono anche un ulteriore ragionamento di prospettiva.
Per aumentare la “competitività” bisognerebbe stornare denaro dalla fiscalità generale verso le imprese (anche attraverso la progressiva riduzione del cuneo fiscale, che per la BCE significa riduzione delle tasse per le imprese). Questo significa che non si possono mantenere “in azione” troppo a lungo gli ammortizzatori sociali. I lavoratori devono essere licenziati e perdere i sussidi. In questo modo la situazione diverrà per loro ancora più drammatica e si renderanno disponibili ad accettare condizioni di vita, di lavoro e di salario “adeguate” agli interessi dell'impresa.

Non fa una grinza. I padroni hanno le idee molto chiare.
Sarebbe bello se anche i lavoratori avessero organismi e organizzazioni capaci di avere le idee altrettanto chiare, invece di dover ascoltare chiacchiere senza fondamento sulla presunta natura “deflattiva” delle proposte avanzate dalla BCE. La lotta economica è uno dei terreni su cui si gioca la lotta di classe. Niente lotta di classe, niente aumenti di salario. Altro che “se si abbassano i salari...”, “si innesca una spirale deflattiva”, “la crisi peggiora”, bla, bla, bla... Non sono i padroni a comportarsi come Taffazzi: siamo noi.
 Primo Maggio

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