Mentre in Italia siamo in piena campagna elettorale concentrata esclusivamente su Berlusconi sì/Berlusconi no, fingendo che i mercati finanziari niente abbiano a che fare con la crisi, negli Usa si PROCEDE CON L'AUSTERITY. Già, in Italia in queste ore si cerca di far passare l'idea che il Berlusca da solo in Europa come negli Usa sia causa della crisi ed una minaccia che "turba" i santi mercati tanto magnanimi con i popoli. Tornando in Usa, la cinesizzazione degli stipendi pare stia perfino favorendo il ritorno al Made in America. Strano non venga interpretato come decisione "razzista" dalla nostra cara società politically correct tanto amante della globalizzazione. Essa ha avuto l'incarico dai mentori yankees del promoter, spacciando la globalizzazione come "evoluzione naturale
della specie". Ha perfino sostenuto come tramite questo processo i diritti dei lavoratori europei sarebbero stati "esportati" ai lavoratori cinesi e dovunque venissero delocalizzate le produzioni. Di solito, da noi chi parla di protezionismo o produzioni locali da privilegiare e proteggere da concorrenza sleale proprio per la salvaguardia dei posti di lavoro interni (già, non esistono solo gli operai dell'Ilva in questa nazione) viene additato come troglodita razzista "leghista". Salvo poi frignare quando una fabbrica chiude e licenzia causa concorrenza insostenibile.
Barbara
Terapie della penuria nella fase post-egemonica
Tito Pulsinelli
Il 3 gennaio prossimo a Washington taglieranno il bilancio di ben 1500 miliardi di dollari. La patata bollente è arrivata all'ultimo passaggio: per legge, quale che sia il governo in carica, deve armarsi di bisturi e tagliare. In modo "lineare", scaglionato, a zig zag, alla Tremonti, alla moda europea? Non importa. Il circo mediatico ha coniato l'apposita metafora (abisso fiscale), sta lavorando sodo -alla Stakanov- per introdurla nel chiacchiericcio generale, poi ci vorrà azione. Beninteso, mette al bando ogni riferimento alla dimensione draconiana del salasso, soprattutto tace su come usciranno decimate varie burocrazie e l'istituzionalità della solidarietà sociale. Lo scricchiolio ricorda i suoni sinistri dei thrilling all'aprirsi dell'uscio da cui entra il killer: sarà seriale? La "narrativa" del regime è molto attenta ad eliminare ogni cosa che possa evidenziare il dissolvimento del cemento sociale, che sedimenta e coesiona forze sempre più centrifughe e conflittive. Vietato evocare il pathos lugubre del 1929. La battaglia campale tra le lobby, per mettere al riparo dei tagli i propri committenti, sarà più simile a una guerra per bande tra i sottoscrittori che si aggiudicarono -o persero- l'asta presidenziale della vigilia delle elezioni . Il Partito di Wall Street (PWS) filtra che ci sarebbe un pre-accordo tra le sue due componenti, in cui i repubblicani accetterebbero una riduzione dei fondi per i militari (500 miliardi) e qualche aumento simbolico delle tasse, mentre gli obamiani danno l'ok per la riduzione dei programmi sociali. Entrambi, poi, si affrettano a tranquillizzare la rispettiva clientela elettorale, invitando alla calma perchè l'effetto dei tagli si sentirà solo nel 2014. Viva il parroco. A tutto questo, fa da sfondo scenografico il crollo del mito della globalizzazione e la proliferazione di iniziative volte ad ottenere referendum per la secessione, particolarmente forti e insidiosi in Texas e Vermont. Non il vecchio separatismo "ideologico", ma secessione come legittima difesa dal caos crescente generato dai gruppi di potere elitari che hanno perso la bussola. Da apostoli della crescita infinita a inquisitori pro-carestia, nel volger di qualche lustro. Si fa strada la diffusa percezione d'una politica estera che gira a vuoto, che si guarda l'ombelico e non cava un ragno dal buco in Iraq. Ancora abbagliata dal narcisismo -fine a se stesso- della Guerra al Terrorismo, che si appresta ad un'altra fuga in avanti. Ammassare risorse e tutti i mezzi militari disponibili, schierarli nel mare della Cina, per stringere un cappio al collo alle esportazioni di manufatti cinesi e all'importazione di materie prime. Ancora una volta primeggia la tentazione di rispondere con mezzi militari a problemi che militari non sono. Gli Stati Uniti -e la sua protesi "occidentale"- sono in piena fase post-egemonica. Pertanto è riduttivo, pressocchè illusorio, continuare a pensare in termini di "crisi economica", risolvibile con ginnastiche finanziarie prelibate soltanto per le elites. E' un processo che sta dissolvendo basi, legami e valori che sono stati la ragion d'essere di un'epoca storica e d'un modello che tracollò per superbia ed estremismo, proprio quando scomparve l'antagonista sovietico. Riuscirà l'oligarchia a scaricare sul popolo minuto metropolitano il costo dei suoi limiti? Riusciranno ad esportare nelle latitudini ex-coloniali il peso totale del proprio fallimento storico? Ai postumi l'ardua sentenza. Tra la defunta crescita infinita e la crescita con redistribuzione, in Sudamerica e negli altrove emergenti, si inclinano verso la seconda opzione.
I Cosiddetti Nuovi Posti di Lavoro in Usa: Solo per Vecchi (di Maurizio Blondet)
8 dicembre 2012
“Usa: creati più posti di lavoro del previsto”, “Usa: a novembre più 147 mila posti di lavoro!”. Entusiasmo d’ufficio nei media sussidiati: il mondo sta uscendo dalla crisi, è la luce in fondo al tunnel! Monti ha sempre ragione! Ma se vediamo più da vicino i dati di questo miracolo americano, sgranandolo per clkassi di età dei “nuovi” lavoratori, il quadro è lievemente agghiacciante. Anzitutto una spiegazione: i posti imprevisti in più si aggiungono alla “normale” crescita di 1,2 milioni di posti di lavoro a novembre, “normale” perchè si tratta di assunzioni in vista dello shopping natlizio. Ebbene: i vecchi, tra i 55 e i 69 anni, si sono accaparrati i posti di lavoro creati in più, anzi ancora di più: ben 177 mila. Nella classe di età fra i 24 e i 55 anni, la più produttiva e quella che spunta le buste-paga più alte, i posti di lavoro sono in realtà calati di 359 mila . E’ una tendenza costante: da quando Obama è entrato alla Casa Bianca, la classe 55-69 anni ha cumulativamente guadagnato 4 milioni di posti di lavoro; le classi giovanili, dai 20 ai 25 e dai 25 ai 55, ne hanno persi 3 milioni. Tre milioni di posti di lavoro perduti. Rischio Calcolato
Al link potete vedere tabelle e grafici
Addio Cina, le aziende Usa tornano a produrre in patria
Damiano Beltrami
Dopo anni di outsourcing, è arrivata l’inversione di rotta: l’insourcing. Dalla General Electric alla Apple. Alla base della strategia il prezzo del petrolio triplicato dal 2000 ad oggi, i salari degli operai cinesi aumentati di cinque volte negli ultimi 12 anni e sindacati americani sempre più deboli.
Lavoratrici della General Electric negli stabilimenti di Singapore il giorno della visita di Hillary Clinton (Afp)
ESTERI
8 December 2012 - 15:26
«Il prossimo anno trasferiremo parte della produzione di computer Mac negli Stati Uniti. Da tempo lavoriamo al progetto, adesso ci siamo quasi. Il cambiamento si materializzerà nel 2013. Ne siamo già molto orgogliosi. Lo avremmo potuto fare più velocemente prevedendo solo l’assemblaggio di una linea di Mac negli Stati Uniti, ma abbiamo lanciato un’operazione di più ampio respiro, più radicale. Investiremo 100 milioni di dollari».
A parlare, in un’intervista pubblicata sull’ultimo numero di Bloomberg Businessweek, è Tim Cook, l’erede di Steve Jobs alla guida della Apple, un’azienda che impiega 598.500 persone negli Stati Uniti (di cui 307.250 in modo diretto e altri 291.250 nell’industria delle applicazioni). E in Cina ha il doppio di impiegati, oltre un milione e 200mila lavoratori.
Al momento, quella di Cook appare più una mossa per ingraziarsi i clienti, piuttosto che l’inizio di un graduale trasferimento della produzione dell’azienda dalla Cina agli Stati Uniti. Per questo tipo di piano servirebbe un investimento sideralmente diverso rispetto a quello annunciato. La mossa di Cook in fondo riguarda appena una linea di computer, quando ormai la parte del leone del fatturato di Apple è costituita dalla vendita di iPhone e iPad. E come ci ha spiegato Jeffrey Wu, analista alla IHS iSuppli, «non è inedito che le aziende di computer e affini spostino parte della loro produzione, spesso i dispositivi voluminosi, il più vicino possibile ai clienti, per accorciare i tempi di trasporto e di consegna».
La decisione di Apple, però, rinforza un trend, quello dell’insourcing, che si è delineato negli ultimi anni, e ha subito un cambio di passo negli ultimi mesi. Sempre più aziende americane, soprattutto manifatturiere, hanno deciso che, tutto sommato, per alcuni prodotti, conviene tornare all’ovile.
Un esempio emblematico, messo recentemente in risalto dal magazine Atlantic Monthly, è Appliance Park, un’azienda di elettrodomestici controllata da General Electric (GE). Aperta nel 1951 a Louisville in Kentucky, quattro anni dopo contava già 16mila operai. Negli anni ‘60 sfornava 60mila elettrodomestici al mese alimentando l’economia di consumo americana. Appliance Park raggiunse il momento d’oro nel 1973. Ben 23mila operai si alternavano alle varie linee di produzione. A quei tempi il parcheggio della fabbrica aveva perfino semafori per regolare il supertraffico tra un turno e l’altro. Poi, lentamente, è andato in scena il declino. Fino all’ultima crisi, quella del 2008, quando l’amministratore delegato di GE, Jeffrey Immelt, ha cercato di venderla. Senza fortuna, perché non si è presentato alcun acquirente. Dopo vent’anni di gloria e quaranta di frustrazioni, nel 2011 Appliance Park con appena 1.863 sopravvissuti in servizio, versava in uno stato comatoso. Ma ecco il colpo di scena: lo scorso 10 febbraio Appliance Park ha fatto partire una nuova linea di produzione, la prima dopo 55 anni. Obiettivo: costruire scaldabagni a basso consumo, un prodotto che negli anni precedenti GE faceva realizzare in Cina. Un mese dopo, il secondo miracolo. Altra linea di prodotti. Questa volta per confezionare frigoriferi high-tech, compito da anni appaltato in Messico. E per i già sbigottiti operai della Appliance Park è perfino arrivato un regalo natalizio: a inizio 2013 verrà avviata la produzione di un terzo elettrodomestico, una lavatrice-asciugatrice.
Operai e famiglie di Louisville si interrogano retoricamente sui motivi di questa conversione tanto tardiva al “made in America”. Perché lasciar arrugginire per anni gli stabilimenti americani - e con loro il futuro degli operai e delle loro famiglie - con la strategia del conveniente outsourcing per poi rinnegarla e tornare all’antico?
«L’outsourcing», ha detto laconico l’amministratore delegato di GE Immelt all’Atlantic, «sta diventando un modello di business obsoleto per gli elettrodomestici di GE».
A ben guardare, le ragioni di questa obsolescenza dell’outsourcing a favore di una virata verso l’insourcing sono numerose. Primo, il prezzo del petrolio dal 2000 a oggi è triplicato, e ha reso il trasporto via cargo molto meno vantaggioso che in passato. Secondo, la rivoluzione nell’estrazione dei gas naturali negli Stati Uniti ha fatto sì che le bollette dell’elettricità delle fabbriche americane siano più abbordabili (mentre in Asia i gas naturali costano quattro volte di più). Terzo, dal 2000 gli stipendi in Cina si sono quintuplicati e ci si attende che continuino a crescere del 15-20% all’anno. Quarto, il costo di un operaio in America non è proibitivo, se rapportato per esempio a lavoratori in Paesi come Germania, Francia o Giappone. E questo perché i sindacati si sono indeboliti: negli anni ‘70 e ‘80 Louisville era soprannominata “Strike City”, la città degli scioperi; invece nel 2005 ha firmato un accordo con il quale ben il 70% della forza lavoro si accontenta di salari da 13 dollari e 50 centesimi all’ora.
Più in generale, GE si è accorta che a far le cose in casa si risparmia perché ci si rende conto degli sprechi in modo più immediato. Per anni progettavano scaldabagni, per esempio, che poi venivano assemblati in Cina e con il tempo si erano dimenticati di controllare se il design pensato negli Stati Uniti era funzionale al momento della realizzazione. Creando il prodotto dalla A alla Z in Kentucky hanno ottimizzato il design riducendo tempi e costi di produzione. Tanto da rendere gli scaldabagni sfornati in Kentucky vendibili a “prezzi cinesi”. Quelli prodotti in Cina sono sbarcati sul mercato al costo di 1.599 dollari, mentre quelli “made in Louisville” erano più convenienti, prezzo 1.299 dollari.
GE non è l’unica a orientarsi sull’insourcing. Lo fanno decine di altre aziende: dalla Wham-O che sposta parte della produzione di frisbee dalla Cina alla California, alla Whirlpool che trasferisce la produzione dei suoi frullatori dalla Cina all’Ohio, alla Otis (gli stabilimenti degli ascensori dal Messico fanno le valigie in direzione South Carolina).
Nancy Lazar, co-autrice di uno studio di ISI Group, un centro di ricerca per investitori, parla dell’inizio del rinascimento del manifatturiero americano. “Lo vado dicendo dal 2009,” ha spiegato orgogliosa all’Atlantic. “Le aziende con produzione industriale mi dicevano che ero pazza. Perché me lo dicevano? Perché hanno passato gli ultimi 15-20 anni a costruire gli stabilimenti fuori dagli Stati Uniti. Ma adesso quell’epoca è finita”.
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