di Leonardo Mazzei
Il processo inarrestabile della disunione europea va avanti
Quantitative easing (QE): ecco il nuovo pomo della discordia di un'Europa sempre più divisa. La questione è da tempo sul tavolo della Bce, ma adesso il tempo stringe. Il problema è quello se utilizzare, oppure no, il QE per acquistare titoli di Stato. E, se sì, in quale misura. Su tutto ciò i paesi dell'eurozona sono divisi, e così pure il comitato esecutivo della Bce.
Il QE è un classico strumento di politica monetaria. L'acquisto di titoli - in generale non importa se pubblici o privati - è il mezzo per ottenere un significativo aumento della massa monetaria. Uno "stampare moneta" che, aumentando la liquidità, è normalmente orientato a far ripartire il credito e gli investimenti. Uno strumento, dunque, di una politica anticiclica utilizzato per contribuire all'uscita dalle recessioni più profonde. Che è quello che hanno fatto, con risultati significativi anche se non sempre univoci, le banche centrali degli Stati Uniti (Fed), del Giappone e della Gran Bretagna.
Il caso dell'eurozona è però palesemente diverso. E la diversità risiede nell'assurdità di una moneta unica per 18 stati con 18 diversi debiti, con 18 diversi tassi di interesse e 18 diversi rating. Il tutto a rappresentare 18 economie piuttosto disomogenee tra loro. Ovvio che in questa situazione la Bce sia intervenuta di fatto, negli anni scorsi, solo a tamponare provvisoriamente la situazione nei momenti più drammatici della crisi del debito.
Ed è chiaro che, nella sostanza, quegli acquisti hanno rappresentato una violazione dei trattati europei che vietano la messa in comune del debito dei singoli stati. Una violazione sulla quale tutti hanno chiuso un occhio per evitare il default dei paesi dell'area mediterranea. Ma oggi questo divieto viene richiamato con decisione dal presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, che non più tardi di ieri l'altro lo ha ribadito con forza in una lunga intervista concessa a la Repubblica.
Lo scontro è dunque nelle cose, dato che gli interessi tendono sempre più a divergere. Ed è uno scontro ormai interno alla più "sacra" delle istituzioni europee, laddove la "sacralità" fa coppia fissa, come sempre in Europa, con la negazione di ogni principio democratico. Stiamo ovviamente parlando della Bce.
Nei giorni scorsi due importanti organi di stampa tedeschi, il settimanale Die Zeit ed il quotidiano Die Welt, hanno riferito, senza essere successivamente smentiti, di una clamorosa spaccatura all'interno del comitato esecutivo della Bce. Ben tre membri su sei - la tedesca Lautenschläger, il lussemburghese Mersch ed il francese Coeuré - si sarebbero rifiutati di sottoscrivere le dichiarazioni di Draghi che sembrerebbero preludere ad una sorta di "QE" all'europea", sia pure rimandandolo a gennaio.
La posizione anti-QE viene ampiamente ripresa e motivata nella già citata intervista di Weidmann, il quale conferma il no tedesco, rinforzandolo con un altro esplicito no alle richieste di flessibilità sui bilanci di Francia ed Italia. In sostanza Weidmann dice che le regole vanno semplicemente rispettate, che ogni deroga concessa servirebbe solo a renderle meno credibili. La classica impuntatura tedesca, si dirà, ma è un fatto che le regole alle quali egli si richiama sono state effettivamente sottoscritte da tutti i paesi dell'eurozona. Con l'Italia di Monti e Napolitano che, per eccesso di zelo, ne ha inserito il punto cardine perfino in Costituzione!
Tuttavia, nonostante l'opposizione tedesca, è assai probabile che il QE si faccia. Ma con quali scopi e in quali forme?
Chiariamo subito un punto. Con l'eccezione del patetico Scalfari, che continua a credere che il QE venga fatto per uscire dal credit crunch (stretta del credito), aprendo così la strada all'ormai mitica "ripresa", tutti sanno che il quantitative easing all'europea ha fondamentalmente un altro scopo: quello di salvare le banche italiane dalla bancarotta.
In queste settimane, ma in maniera più massiccia nei primi mesi del 2015, le banche dovranno restituire i prestiti del cosiddetto LTRO (Long term refinancing operation), concessi dalla Bce tra il dicembre 2011 e il febbraio 2012. Pur essendo stati definiti di "lungo termine", questi finanziamenti sono ormai a scadenza. Il problema è che le banche del sud Europa furono chiamate ad utilizzare quei soldi per acquistare i titoli del debito dei rispettivi stati. In quell'operazione le banche guadagnarono, e non poco, visti i bassi tassi di interesse praticati da Francoforte, riempiendo però oltre misura i propri portafogli di titoli destinati a deprezzarsi nel prossimo futuro.
Assolutamente emblematico il caso italiano, ma lo stesso fenomeno si è verificato anche negli altri stati investiti dalla crisi del debito. Rispetto a tre anni fa la montagna di Btp posseduta dalle banche del nostro Paese è infatti passata da circa 200 miliardi ad oltre 400. Un raddoppio che mette a rischio la stabilità dei bilanci bancari, data l'insostenibilità delle attuali quotazioni.
Da cosa deriva questa insostenibilità? Per capirlo basta aprire gli occhi e mettere a confronto due dati: il primo è il livello straordinariamente basso dei tassi di interesse; il secondo è il deterioramento del livello del debito, al quale corrisponde anche un progressivo declassamento del rating, come quello annunciato nei giorni scorsi da Standard & Poor's. Semplicemente due cose che non possono stare insieme. Di sicuro non a lungo.
Certo, la riduzione dei tassi nominali è dovuta anche alla situazione di sostanziale deflazione in cui ci troviamo. Un fenomeno che, ad oggi, garantisce ancora un discreto interesse reale ai possessori dei Btp. C'è però un problema, e si chiama futuro. I Btp decennali rendono attualmente circa il 2% lordo. Ora, chi scommetterebbe mai su un tasso di inflazione inferiore al 2% tra 3 anni, 5 anni, 10 anni? Ovviamente nessuno. Ma chi ha in portafoglio questi titoli, specie quelli acquistati nell'ultimo periodo, e dunque con tassi più bassi, ha esattamente questo problema.
Un problema che può essere risolto solo disfacendosi di questa massa di Btp. Mediobanca, ad esempio, prevede che le banche italiane vorranno e dovranno scendere da 400 a 100 miliardi in un anno. Ma a chi vendere i restanti 300? O meglio, come farlo senza produrre un crollo del loro prezzo, e di conseguenza un'impennata dei tassi di interessi reali? Siccome non pare proprio che ci sia la ressa per comprarli, c'è solo una soluzione: l'acquisto da parte della Bce. E' l'attesa di questo evento che ha consentito di mantenere i tassi ad un livello così basso ed oggettivamente innaturale.
Da questo punto di vista l'intervento della Banca centrale europea è dunque una necessità assoluta. In caso contrario, al primo stormir di foglie, cioè alle prime avvisaglie di nuove tensioni sui mercati finanziari, molte banche rischierebbero il crac. Ovvio che Francoforte lo voglia impedire, anche perché la bancarotta del sistema bancario italiano equivarrebbe alla fine della moneta unica.
L'intervento di Draghi appare dunque obbligato, ma davvero la Bce vorrà funzionare come "acquirente di ultima istanza"? Non pensiamo proprio. Molto probabilmente il "QE all'europea" sarà la solita mezza misura: utile a "comprare tempo" (quanto è difficile dirlo), del tutto inutile per affrontare i nodi strutturali generati dal sistema dell'euro.
Se così stanno le cose, lo scontro che investe la Bce, che riflette quello tra il blocco tedesco e i paesi dell'area mediterranea, si risolverà in un compromesso che farà del QE di Francoforte la classica coperta corta. Non del tutto inefficace, ma del tutto insufficiente.
Perché "coperta corta" è presto detto. L'ipotesi è quella di aumentare il bilancio della Bce di 1.000 miliardi. In realtà niente di trascendentale, visto che in questo modo si tornerebbe ai valori di tre anni fa, nel frattempo erosi dalla restituzione dei crediti del LTRO. In pratica una partita di giro: con una mano Francoforte rientrerebbe in possesso dei soldi serviti alle banche per acquistare titoli, con l'altra acquisterebbe essa stessa, questa volta direttamente, nuovi titoli.
Ma quanti di questi 1.000 miliardi verrebbero spesi per acquistare bond dei vari debiti pubblici degli stati dell'eurozona? Secondo le stime più accreditate (vedi, ad esempio, il Sole 24 Ore del 5 dicembre scorso) la cifra più realistica si aggirerebbe sui 500 miliardi. Ma quali stati ne beneficerebbero?
Gli europeisti più ingenui, una specie zoologica ancora esistente anche se in tendenziale via d'estinzione, penseranno forse ad acquisti indirizzati esclusivamente, o almeno principalmente, verso i paesi in difficoltà del sud Europa. Eh no, signori cari! L'Europa non funziona così. Non funziona in base ad un criterio solidaristico, che poi sarebbe l'unico in grado di tenere in piedi la baracca. Funziona invece in base al Pil. Il che significa che l'Italia con il suo 17,6% sul totale dell'eurozona avrebbe acquisti per 88 miliardi e la Grecia per meno di 10, mentre la Germania - che di tali acquisti non ha ovviamente alcun bisogno - ne beneficerebbe per 135 miliardi. Viva l'Europa!
Ora sarà chiaro perché il QE, sempre che si faccia, avrà in realtà un'efficacia assai limitata. 88 miliardi, che peraltro verrebbero acquistati in un periodo di tempo presumibilmente assai lungo, sono ben poca cosa rispetto all'urgenza a vendere delle banche. Urgenza che diventerebbe ben più stringente qualora i tassi riprendessero a crescere. Una prospettiva assai naturale, indipendentemente dalla probabile esplosione di nuove crisi finanziarie, dato che l'operazione della Bce punta ad alzare il livello dell'inflazione fino alla soglia del 2%.
Ma, al di là delle cifre, quel che va rilevata è l'assoluta indisponibilità politica delle istituzioni europee, in questo tutte unite, a prendere in considerazione qualsiasi ipotesi di una pur parzialissima mutualizzazione del debito. Detto per inciso: auguri Tsipras!
E' in questa cornice, in questa gabbia d'acciaio, che si svolge lo scontro interno alla Bce. Uno scontro, tutto politico, nel quale Draghi prova ancora a sostenere una posizione federalista (quella che punta ai mitici e sempre più irraggiungibili Stati Uniti d'Europa). E' quel che ha fatto qualche giorno tempo fa, durante la sua visita in Finlandia, dove ha detto che: «Il successo dell'unione monetaria dipende dalla consapevolezza che una moneta unica significa unione politica».
Questa posizione che, sia chiaro, porterebbe ad un mostro antidemocratico ancor peggiore di quello attuale, ha ovviamente una sua logica, dato che alla lunga non potrà mai reggere una moneta senza stato. Ma è una logica che confligge con la realtà delle cose. Quello in atto non è un percorso verso l'unione politica, bensì un processo di progressiva disunione dell'UE.
Non conosciamo il futuro di Draghi, sul quale si vocifera molto, al punto che qualcuno lo immagina al Quirinale. Quel che conosciamo è l'opinione tedesca. Di Weidmann abbiamo detto, mentre dei continui richiami rigoristi della Merkel hanno scritto anche recentemente i giornali. Ora sappiamo anche la posizione della già citata signora Lautenschläger, membro tedesco del comitato esecutivo della Bce, che ha preso platealmente le distanze da Draghi, attaccando l'ipotesi del QE e soprattutto l'acquisto di titoli di stato, dato che tale operazione equivarrebbe ad un «trasferimento fiscale».
Vedremo cosa accadrà a gennaio, ma anche se il QE prenderà davvero il via, i paletti di questa operazione sembrano già ben fissati. E se Draghi potrà forse avere una vittoria d'immagine, è assai più probabile che nella sostanza sia Weidmann ad avere successo.
Quel che è certo è che lo scontro è in atto. E che il blocco rigorista non intende mollare di un centimetro. Non si tratta della sola Germania. Basti pensare alle minacce di Juncker a Francia ed Italia, ed alla clamorosa interferenza nelle vicende politiche della Grecia.
Un ricordo, quello di queste ultime vicende, che dedichiamo a quelli che negano l'esigenza di riappropriarsi della sovranità nazionale. Che sono poi quelli che... «l'Europa è riformabile». A costoro possiamo solo consigliare un'antica ricetta, quella dell'analisi concreta della situazione concreta. Una ricetta per la quale i fatti ci regalano ogni giorno qualche ingrediente in più.
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