domenica 7 aprile 2013

Dedicato a coloro che auspicano quanto prima l'avvento della democrazia in Siria come NATO vuole: Afganistan strage di bambini e donne per raid NATO.
Barbara

Siria, la corsa all’oro nero
di: Manlio Dinucci
Le riserve petrolifere accertate della Siria (2,5 miliardi di barili), sono maggiori di quelle di tutti i paesi vicini eccetto l’Iraq: lo stima la U.S. Energy Information Administration, che di petrolio (soprattutto quello degli altri) se ne intende. Ciò rende la Siria uno dei maggiori produttori ed esportatori di greggio in Medio Oriente. Il paese possiede anche grosse riserve di gas naturale, usato finora per il consumo interno. C’è però un problema, segnala l’agenzia statunitense: dal 1964 le licenze per l’esplorazione e lo sfruttamento dei giacimenti sono riservate agli enti statali siriani.
Ciò procurava allo stato, fino al 2010, un’entrata annua di oltre 4 miliardi di dollari
proveniente dall’esportazione di petrolio soprattutto in Europa. Le cose però stanno cambiando con la guerra. L’«Esercito libero siriano» si è impadronito di importanti campi petroliferi nell’area di Deir Ezzor.
Altri campi, nell’area di Rumeilan, sono controllati dai curdi del Partito di unione democratica, ostili però anche ai «ribelli» con i quali si sono più volte scontrati. La strategia Usa/Nato punta sui «ribelli», che sono stati aiutati a impadronirsi dei campi petroliferi con un duplice scopo: privare lo stato siriano degli introiti delle esportazioni, già fortemente calati per effetto dell’embargo Ue; far sì che i maggiori giacimenti passino in futuro, tramite i «ribelli», sotto il controllo delle grandi compagnie occidentali. Fondamentale, a tal fine, è il controllo della rete interna di oleodotti e gasdotti. Questa è stata sabotata dai «ribelli» in più punti, soprattutto nei pressi di Homs dove c’è una delle due raffinerie del paese.
Ma c’è un’altra posta in gioco strategicamente ancora più importante: il ruolo della Siria quale hub di corridoi energetici alternativi a quelli attraverso la Turchia e altri percorsi, controllati dalle compagnie Usa ed Ue. La «guerra degli oleodotti» è iniziata da tempo: nel 2003, invadendo l’Iraq, gli Stati uniti hanno subito distrutto l’oleodotto Kirkuk-Banias che trasportava in Siria il greggio iracheno. E’ restato però in funzione quello tra Ain Zalah e Suweidiva. Successivamente, sfidando i divieti di Washington, Damasco e Baghdad hanno varato il progetto di due oleodotti e un gasdotto che, attraverso la Siria, collegheranno i giacimenti iracheni al Mediterraneo e quindi ai mercati esteri. Ancora più pericoloso per gli interessi occidentali l’accordo stipulato nel maggio 2011 tra Damasco, Baghdad e Teheran: esso prevede la realizzazione di un gasdotto che, attraverso l’Iraq, trasporterà il gas naturale iraniano in Siria e da qui ai mercati ester i. Questi e altri progetti, già finanziati, sono stati bloccati da quelle che l’agenzia statunitense definisce «le incerte condizioni di sicurezza in Siria».
FONTE: IlManifesto.it
Cori in tempesta


Siria: comincia l’ultimo atto

di Giulietto Chiesa – «La Voce delle Voci» - aprile 2013.
Un fittissimo intrecciarsi di voli militari è in corso mentre il lettore sta scorrendo queste righe. Si tratta di aerei di varia nazionalità, con sigle diverse dipinte sulle loro carlinghe, con equipaggi internazionali, in partenza da aeroporti che spaziano dalla Croazia, alla Turchia, dal Qatar, all’Arabia Saudita, dalla Giordania e da diversi altre basi della Nato. Il New York Times dello scorso 24 marzo parlava di voli che “fanno pensare ad un’operazione militare clandestina ben pianificata e coordinata”.

È in atto la preparazione di quella che è l’ultima fase, che potrebbe precedere l’attacco militare della Nato contro la Siria e produrre la caduta, con relativa uccisione, del “sanguinario dittatore” di turno.
Si tratta di un’operazione che comporta grosse spese, per migliaia di tonnellate di armamenti e munizioni, i cui destinatari sono i ribelli del cosiddetto Esercito Libero Siriano.
L’organizzatore fu l’«ex» David Petraeus, il che ci dice che Barack Obama non ce la raccontava giusta quando voleva far credere all’opinione pubblica occidentale che gli Stati Uniti non erano poi davvero molto interessati alla caduta di Bashar al-Assad. Anzi, quando affermava di essere preoccupato dell’eventualità che il crollo del regime di Damasco avrebbe potuto provocare l’inizio della frantumazione della Siria in una piccola galassia di faide sanguinose tra etnie, religioni, nazionalità già in ebollizione e pronte a vendicare i torti subiti negli ultimi quarant’anni.
Ma, a Washington, si ritiene ormai che sia meglio avere dei sunniti al governo di Damasco, piuttosto che degli sciiti alauiti. Ci sarà qualche sgozzamento di troppo, è vero, ma poiché l’obiettivo è quello dicreare disordine e non di portare ordine, probabilmente sarà più funzionale questa soluzione. La quale creerà problemi anche per Israele, che si troverà ai confini un altro stato guidato da fanatici jihadisti. Ma Israele può essere accontentata in altro modo: con il via libera contro l’Iran. Anche iturchi potranno avere qualche problema dai curdi siriani, che vorranno unirsi ai curdi iracheni. MaRecep Tayyip Erdoğan saprà come metterli a posto come meritano, gli uni e gli altri. Insomma la faccenda è stata infiocchettata a dovere. Resta solo da consegnarla al destinatario, che è il popolo siriano.
Siamo stati, negli ultimi mesi, spettatori di una commedia, il cui copione era di far credere che Washington fosse il moderatore dello scontro. Un po’ come accadde alla Libia di Gheddafi: martirizzata da Francia e Gran Bretagna, con – certo – il supporto logistico della flotta e dell’aviazione degli Stati Uniti, ma di malavoglia, con ritrosia, solo per ossequio verso alleati fin troppo aggressivi.
Ora è tutto chiaro. E’ in corso l’inizio dell’ultima fase. Che prevede una tattica lenta, non un blitzkrieg a breve scadenza. I comandi americani e Nato, in piena sintonia, hanno già calcolato che Bashar non è in condizione di resistere indefinitamente. Lo lasciano cuocere nel suo brodo, sempre più bollente.Circondato da ogni lato, con il solo afflusso (ma difficoltoso) di armi e uomini dall’Iran, sotto un embargo asfissiante. Con Israele anch’essa in posizione di apparente basso profilo, ma incaricato di controllare ogni movimento di mezzi e di uomini dal territorio libanese. La Giordania punto logistico cruciale assieme alla Turchia; l’Arabia Saudita e il Qatar in veste di emissari e finanziatori locali;basi Nato di transito e di stoccaggio nei diversi aeroporti turchi, ultima tappa prima della distribuzione alle formazioni armate che agiscono in territor io siriano.
E tutto questo mentre, in parallelo, i servizi segreti americani, britannici, francesi, turchi, sauditi, israeliani già agiscono con squadre di commandos, con specialisti in azioni terroristiche, nelle città siriane non ancora raggiunte dall’esercito di mercenari jihadisti.
False erano anche le notizie che lasciavano intendere la riluttanza americana a concedere armamenti più sofisticati e potenti. Adesso – riferisce esplicitamente il citato New York Times– si sta passando alla distribuzione di armi che permetteranno un corso “più letale” alla guerra civile.
Senza fretta, naturalmente. Poiché bisogna costruire, nel frattempo, le tappe politiche che serviranno ai giornalisti embedded di tutto l’Occidente a descrivere l’aggressione militare in termini direstaurazione della democrazia in Siria.
Nei giorni scorsi è stato insediato a Istanbul un governo siriano in esilio, composto di emigrati siriani in America e in Occidente. Immediatamente proclamato come “unico governo legittimo”, in attesa di essere trasferito nei nuovi uffici di Gaziantep, nelle immediate vicinanze della frontiera turco-siriana. Vi resterà fino a che le squadre armate della Nato avranno ricavato qualche nicchia relativamente sicura in territorio siriano, affinché i Quisling possano trasferirvisi e, da lì, cominciare a lanciare i proclami di vittoria.
A quanto si sa, questo progetto è stato illustrato recentemente a Roma in una conferenza per specialisti intitolata “United States, Europe, and the case of Syria”. Il luogo è stato il Centro di Studi Americani, il presidente del panel era Giuliano Amato, l’oratore principale era Frederic Hof, ambasciatore statunitense e fino a pochi mesi fa capo del team del Dipartimento di Stato impegnato sul “caso Siriano”.
Se Bashar al-Assad dovesse interporsi – ha spiegato Hof – il fatto stesso sarebbe considerato occasione per intervenire in difesa del “legittimo governo siriano”. Se non vorrà o potrà intervenire, allora si estenderà gradualmente la sua area fino ad arrivare a Damasco. A quel punto o Bashar scappa (sempre che riesca a farlo tra un attentato e l’altro; sempre che riesca a sfuggire ai generali felloni che, nel frattempo, saranno stati comprati a peso d’oro, o impauriti a morte per la sorte dei loro figli e parenti) e il governo degli occidentali viene installato a Damasco, oppure ci sarà la carneficina finale, operata dai tagliagole jihadisti dopo che i missili Cruise e i droni della Nato avranno raso al suolo le ultime infrastrutture difensive, i comandi militari e i sistemi di comunicazione.
MoscaPechino e Teheran, ciascuna per conto proprio, non potranno che prendere atto. Putin sta facendo i suoi conti e Xi Jinping non sarà da meno. Ma entrambi non potranno fare molto di più che protestare al Consiglio di Sicurezza per la violazione delle norme della Carta dell’Onu. E’ una questione di tattica, poiché strategicamente la battaglia è stata perduta. Teheran ha qualche preoccupazione in più. La sparizione di Bashar da Damasco sarà un altro segnale che la pressione sull’Iran è in crescendo. Il viaggio di Obama a Gerusalemme ha lasciato Netanyahu piuttosto soddisfatto. Conoscendo i suoi piani non c’è da stare tranquilli. L’ayatollah Khamenei, la Guida Suprema, nel suo ultimo discorso ha fatto l’elenco dei peggiori nemici dell’Iran, stabilendo un ordine molto chiaro e preciso: al primo posto gli Stati Uniti, poi la Gran B retagna e la Francia. Israele è finito solo al quarto posto. Un downgrading che indica come a Teheran Barack Obama non sia tenuto in grande conto come premio Nobel per la Pace.
Quanto tempo ci vorrà per cancellare l’ultimo “stato canaglia” del Mediterraneo? Frederic Hof non lo ha rivelato. Forse non lo sa ancora nemmeno lui. Queste cose richiedono pazienza. Nel frattempo continua quella che un alto ufficiale Usa, che ha mantenuto l’anonimato, ha definito una “cascata di armamenti”. Un vero e proprio ponte aereo di preparazione alla guerra.
Con ogni probabilità toccherà al prossimo ministro degli Esteri il compito di portare in guerra anche l’Italia in questa ultima avventura “democratizzatrice”.
Fonte: Megachip

0 commenti:

Posta un commento