Intanto ecco che realizzano un loro "alto ideale"
(ANSA) - BENGASI, 27 MAR - I ribelli libici si dicono pronti a esportare petrolio "in meno di una settimana" e in grado di produrre "dai 100.000 ai 130.000 barili al giorno" e hanno gia' raggiunto un accordo con il Qatar per l'esportazione. Lo ha annunciato un portavoce, dopo la conquista oggi degli impianti e dei terminal a sud di Bengasi. Con l'arrivo dei ribelli a Ben Jawad, infatti, sono tornati sotto il loro controllo tutti i maggiori terminal petroliferi del settore orientale della Libia.
Ansa
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chissà se sarà stata una decisione maturata con la massima partecipazione del popolo, una decisione "democratica" presa nel loro ufficio nel Surrey
Consiglio inoltre la lettura di:
Le SAS inglesi erano in Libia dal 2009 dal Corriere della Collera
Ghedafi bombardato perché vuole introdurre il dinar d'oro? di Nicoletta Forcheri
Le risorse d'acqua della Libia su Comedonchischiotte
Il giornalista RAI Amedeo Ricucci come i giornalisti hanno mentito di nuovo all’opinione pubblica per creare consenso alla guerra
Già pronto il fantoccio Usa del post Ghedafi? da Peace Reporter
Ed adesso un ritratto degli eroi (speriamo che non facciano come i colleghi tunisini che pensando di avere la democrazia con la sola cacciata del Ben Alì si sono talmente inorriditi da scappare qua, il paese dei balocchi):
I RIVOLUZIONARI LIBICI NON SONO POI COSI’ “RIVOLUZIONARI”...
tratto da Against The Empire traduzione di Gianluca Freda 26 Marzo 2011
Da quando le forze di opposizione dei ribelli libici hanno ripreso il controllo delle città, sono emersi rapporti riguardanti torture, violenze razziali e repressioni. Imbattendomi in alcuni recenti articoli relativi a Bengasi, l’ultima roccaforte dei ribelli in Libia, non posso dire di essere rimasto sorpreso dallo stato di polizia che è stato istituito e dalle persone che hanno preso il potere a Bengasi. E’ stato senza dubbio un clamoroso errore dei cosiddetti “progressisti” prendere le difese di queste forze ribelli (per non parlare di quelli che le salutano addirittura come “rivoluzionarie”).
tratto da Against The Empire traduzione di Gianluca Freda 26 Marzo 2011
Da quando le forze di opposizione dei ribelli libici hanno ripreso il controllo delle città, sono emersi rapporti riguardanti torture, violenze razziali e repressioni. Imbattendomi in alcuni recenti articoli relativi a Bengasi, l’ultima roccaforte dei ribelli in Libia, non posso dire di essere rimasto sorpreso dallo stato di polizia che è stato istituito e dalle persone che hanno preso il potere a Bengasi. E’ stato senza dubbio un clamoroso errore dei cosiddetti “progressisti” prendere le difese di queste forze ribelli (per non parlare di quelli che le salutano addirittura come “rivoluzionarie”).
Da un articolo del Telegraph di giovedì 23/03/201
“I giovanotti armati al posto di blocco vanno per le spicce. Puntano un coltello alla gola dell’autista prima di trascinare tre uomini e una donna fuori dalla macchina, strattonandoli per la strada fino ad una vicina moschea per un brutale giro di interrogazioni...
Il giovane movimento di opposizione libico fa retate di sospetti oppositori e amministra la sua brutale forma di giustizia in una città che vive nella paura di essere infiltrata da quinte colonne di lealisti filogovernativi.
Ogni sera, bande di vigilantes si radunano in prossimità di posti di blocco improvvisati – messi insieme con cataste d’immondizia, tubi e bidoni – per controllare chi entra e chi esce dai loro quartieri.
Molti residenti hanno adesso troppa paura ad uscire in macchina la sera per le strade buie, temendo di essere malmenati o peggio in uno dei checkpoint che continuano a proliferare.
“Se non sanno chi sei e ti trovi nella loro zona della città e hai una bella macchina, penseranno che tu sia un ladro di automobili oppure diranno che stai con Gheddafi”, racconta un autista che ora resta sempre vicino a casa al calar della sera [2].
E sul LA Times di oggi, 25/03/2011:
“I funzionari dell’opposizione a Bengasi, le cui massicce retate per arrestare presunti sostenitori di Gheddafi hanno suscitato molte critiche, portano i giornalisti a visitare, sotto stretta sorveglianza, i centri di detenzione. Molti detenuti affermano di essere semplici lavoratori immigrati e di non aver mai combattuto per Gheddafi.
Da un mese a questa parte, bande di giovani armati pattugliano la città, trascinando neri e immigrati dall’Africa sub-sahariana fuori dalle loro case e mettendoli poi sotto custodia per interrogarli come sospetti mercenari o spie del governo.
Negli ultimi giorni l’opposizione ha iniziato ad arrestare alcuni uomini accusati di aver combattuto come mercenari nelle milizie di Gheddafi quando le forze governative avanzavano verso Bengasi. Sono state organizzate cacce all’uomo notturne aventi per bersaglio circa 8.000 persone che vengono indicate come agenti operativi del governo in alcuni documenti segreti della polizia, documenti sequestrati dopo che i funzionari della sicurezza interna erano fuggiti di fronte all’avanzare della ribellione che il mese scorso ha posto fine al controllo di Gheddafi sulla Libia orientale.
“Sappiamo chi sono”, dice Abdelhafed Ghoga, portavoce dell’opposizione. Lui li chiama “uomini con le mani macchiate di sangue” e “nemici della rivoluzione”.
Un giovane proveniente dal Ghana esce di scatto dalla fila dei prigionieri. Grida in inglese ad un reporter americano: “Non sono un soldato! Lavoro per una compagnia di costruzioni a Bengasi! Mi hanno portato via dalla mia casa...”
Una guardia sospinge il prigioniero verso le celle.
“Torna dentro!”, gli ordina.
La guardia si rivolge al reporter e dice: “Sta mentendo. E’ un mercenario”.
L’uomo del Ghana fa parte di un gruppo di 25 detenuti provenienti da Ciad, Niger, Sudan, Mali e Ghana, definiti mercenari dai funzionari dell’opposizione, benché molti di loro insistano nel sostenere di essere semplici lavoratori. I funzionari si rifiutano di spiegare che cosa sarà di loro.
Uno degli accusati mostrati ai giornalisti è Alfusainey Kambi, 53 anni, un detenuto del Gambia tutto scarmigliato, con indosso una maglietta sporca di sangue e pantaloni militari. Dice di esser stato trascinato fuori dalla sua casa e picchiato da tre uomini armati che avrebbero anche stuprato sua moglie. Una benda sporca gli copre una ferita sulla fronte.
Khaled Ben Ali, volontario del consiglio di opposizione, rimprovera Kambi, accusandolo di mentire. Ali dice che Kambi ha battuto la testa contro un muro mentre cercava di fuggire.
Ordina poi al prigioniero di spiegare come viene trattato nel centro di detenzione.
Kambi fa una pausa e riflette bene sulla risposta da dare. Alla fine lancia un’occhiata stanca verso Ali e parla.
“Qui nessuno mi picchia”, dice con un tono debole e stanco, “non ho problemi qui”.
Questi rapporti sono direttamente confermati da questo video di Al Jazeera, in cui si spiega come gli immigrati neri in Libia vivano nell’assoluto terrore dei ribelli. I loro negozi sono stati dati alle fiamme, sono stati torturati oppure uccisi sul posto perché sospettati di essere “mercenari”, ecc.
Black Agenda Report si era già occupato di questo argomento all’inizio di questo mese, rivelando:
“Risulta ormai chiaro, dalle notizie che filtrano fuori dal paese, che molti degli 1,5 milioni di lavoratori neri immigrati dall’Africa e adesso intrappolati in Libia si sentono sotto assedio razziale, perseguitati da individui che i neri americani riconoscerebbero immediatamente come folle assetate di linciaggio – viene in mente il termine “pogrom” – soprattutto nelle zone controllate dai ribelli.
Le testimonianze di alcuni africani che ne sono stati vittima sono terrificanti. “Siamo stati attaccati da abitanti del luogo che dicevano che eravamo mercenari, che avevamo ucciso delle persone. Ma io dico che questa gente, semplicemente, non vuole vedere dei neri in giro”, ha dichiarato alla Reuters Julius Kiluu, un africano di 60 anni che lavora come supervisore nell’edilizia. Perfino a Tripoli, dove il regime non controlla tutti i quartieri, alcuni somali hanno detto ai giornalisti di essere stati “perseguitati perché sospettati di essere mercenari” e di “sentirsi in trappola e di aver paura ad uscire”. Alcuni etiopi hanno raccontato di essere stati “trascinati fuori dalle loro case, picchiati e additati a tutti come mercenari”. Il giornale etiopico News and Opinions ha riferito che “Coloro che odiano Muammar Gheddafi si stanno vendicando contro i neri africani per il denaro che Gheddafi ha elargito a molti dittatori africani. La folla ha aggredito e ucciso molti africani, inclusi cittadini dell’Etiopia, per il solo fatto che erano neri”.
L’articolo prosegue descrivendo molti altri episodi di violenza razziale perpetrati dai cosiddetti “rivoluzionari” e “combattenti per la libertà”. Dal punto di vista della classe sociale, l’opposizione non è rivoluzionaria. Se torniamo al primo pezzo linkato in questo articolo, quello del Telegraph, possiamo cogliere un passaggio molto significativo:
“Il governo temporaneo dei ribelli è composto da professionisti, accademici, uomini d’affari e avvocati, in molti casi formatisi in Inghilterra o negli Stati Uniti, i quali hanno imparato a creare il giusto putiferio intorno alla democrazia, i diritti umani e la legalità”.
Si tratta dunque di una leadership composta di persone appartenenti a settori privilegiati della società libica, ma non è tutto. Proprio ieri è stato riferito che il nuovo ministro delle finanze dell’opposizione libica è un professore universitario della Foster School of Business dell’Università di Washington. Per citare la portavoce del Consiglio di Transizione Nazionale Libico, Iman Bugaighis:
“Tarhouni è uno che comprende la mentalità occidentale”.
Credo che questo dica davvero tutto, anche se ci sono alcuni tra noi che non si sono lasciati prendere in giro. Sfortunatamente, molti dei “progressisti” e dei “sinistri” di questo paese continuano a condannare Gheddafi come se fosse questa la loro priorità. Fino a quando non si riconoscerà che l’opposizione libica non deve essere né applaudita, né idealizzata, né ammirata, il movimento antimperialista di questo paese non potrà chiedere la cessazione dei bombardamenti contro la Libia, la fine del conflitto armato e il diritto del popolo libico a determinare il futuro del proprio paese. Potremo invece soltanto restarcene pigramente a osservare gli eventi, come una minoranza insignificante nel cuore dell’imperialismo mondiale.
A livello globale, pare siano Cuba e il Venezuela a guidare la demonizzazione dell’imperialismo occidentale per le atrocità compiute in Libia nell’ultima settimana e per il sostegno offerto ai ribelli dell’opposizione. Quest’oggi, il Venezuela, dimostrando (come ha sempre fatto) di essere una vera, tangibile forza progressista nel mondo, ha annunciato il proprio rifiuto di riconoscere l’opposizione libica.
Ciò che accadrà nei prossimi giorni sarà senz’altro cruciale per comprendere quale sarà il destino della Libia. Se lo stato di polizia a Bengasi proseguirà nella sua forma attuale, esso rappresenterà un precedente per il tipo di società che gli intellettuali di estrazione occidentale e altri influenti individui di potere avrebbero un tempo potuto soltanto sognare. Una società di neoliberismo rampante, in cui le riserve petrolifere vengono nutrite come bestiame con cui saziare i portafogli e gli investimenti di pochi tycoon del petrolio. Una società in cui ogni lembo di terra, ogni ricchezza minerale e ogni risorsa verrà depredata, mentre la Libia precipiterà dal più alto livello di sviluppo umano in tutto il continente africano ad una posizione molto più bassa. Inutile dire che le possibilità di una società egualitaria e progressista che venga incontro agli interessi della maggioranza dei cittadini libici, verranno ricacciate indietro fino a livelli mai più visti dopo il 1969.
Chi se li ricorda quelle animacce belle, oggi belluine, che piagnucolavano per gli eritrei 'torturati' da Gheddafi? Oggi tifano a favore dei linciaggi contro gli africani; in prima fila, tra questi tifosi, ci sono Bianca Berlinguer e il gran paraculo Gino Strada. Ricordarsene. - Alessandro
Sito Aurora
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