giovedì 27 giugno 2013

Lo spread come arma di ricatto ha fatto il suo tempo?
Questa faccenda puzza.
Il Tesoro assicura che i derivati sono stati strumenti utili al fine di perseguire l'interesse dello Stato e non causano alcuna perdita di miliardi di euro. La Corte dei Conti conferma. Ora, i "mercati", forse, vergognandosi di non poter utilizzare lo spread che, il cui calo non ha risolto un bel niente, nonostante sostenessero che le sorti dell'umanità dipendessero da quel parametro, stanno cercando un altra scusa per lanciare un nuovo attacco speculativo contro l'Italia?
Il tesoro e la Corte dei Conti stanno solo mettendosi al riparo dall'accusa di non aver osteggiato questi strumenti che perseguono solamente gli interessi delle banche? O
vogliono sventare una minaccia in arrivo? Repubblica non è certo una testata che abbia a cuore gli interessi della gente. Vestita di "società civile", il suo padrone è nel consiglio di amministrazione del gruppo bancario dei Rotschilds, mica nella mensa per i poveri della Caritas.....
Mah, io sento puzza.
Barbara

Ps la considerazione del Tesoro concernente i derivati come strumento di protezione mi fa davvero ridere, se non fosse che come contribuente sono chiamata a pagare questi pizzi perché di pizzo in realtà si tratta. Esempio: pago un'assicurazione al mafioso, affinché non appicchi fuoco al negozio. Ecco, "sopporto un costo" per evitare che un tale evento si verifichi. 

I derivati ristrutturati all'apice della crisi dell'area euro rischiano di costare all'Italia miliardi di euro di perdite. I contratti originali - riporta il Financial Times citando un documento del Tesoro, trasmesso alla Corte dei Conti - risalgono alla fine degli anni '90, ovvero al periodo "precedente o subito successivo all'ingresso dell'Italia nell'euro". In quel periodo "Mario Draghi, attuale presidente della Bce, era direttore generale del Tesoro" afferma il Financial Times, sottolineando che il rapporto di 29 pagine non specifica le potenziali perdite dell'Italia sui derivati ristrutturati. Ma tre esperti indipendenti consultati dal quotidiano calcolano le perdite, sulla base dei prezzi di mercato al 20 giugno, a circa 8 miliardi di euro.

Il rapporto - mette in evidenza il Financial Times - si riferisce solo alle "transazioni e all'esposizione sul debito nella prima metà del 2012, inclusa la ristrutturazione di otto contratti derivati con banche straniere dal valore nozionale di 31,7 miliardi di euro. Il rapporto lascia fuori dettagli cruciali e non fornisce una quadro completo delle perdite potenziali dell'Italia. Ma gli esperti che lo hanno esaminato - aggiunge il Financial Times - hanno detto che la ristrutturazione ha consentito al Tesoro di scaglionare i pagamenti dovuti alle banche straniere su un periodo più lungo ma, in alcuni casi, a termini più svantaggiosi per l'Italia".

Il documento non nomina le banche né fornisce i dettagli sui contratti originali "ma gli esperti ritengono che risalgano alla fine degli anni 1990. In quel periodo Roma aggiustava i conti con pagamenti in anticipo dalle banche per centrare gli obiettivi di deficit fissati dall'Unione Europea per i primi 11 paesi che volevano aderire all'euro. Nel 1995 l'Italia aveva un un deficit di bilancio del 7,7%. Nel 1998, l'anno cruciale per l'approvazione del suo ingresso nell'euro, il deficit si era ridotto al 2,7%".
Sul rapporto del Tesoro è intervenuta anche la Guardia di Finanza - riporta il Financial Times -, con perquisizioni lo scorso aprile negli uffici di Via XX Settembre.

La Repubblica pubblica l'elenco degli otto contratti con data inizio effetti a partire dal 15 aprile 2012 (con data scadenza 15 ottobre 2018) fino al 15 marzo 2013 (scadenza 15 marzo 2040). Emerge l'anomalia degli swap rinegoziati a un prezzo «off market» cioè con una forte perdita iniziale per l'erario.

Comunicato Stampa N° 103 del 26 giugno 2013

TESORO: NON ESISTE ALCUN PERICOLO PER I CONTI DELLO STATO

In merito alle illazioni avanzate da alcune testate, il Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia e delle Finanze fornisce precisazioni e chiarimenti utili a comprendere che gli strumenti di protezione dal rischio di interesse oggi gestiti non comportano perdite.

1. Il Tesoro fornisce regolarmente ogni sei mesi alla Corte dei Conti tutta la documentazione relativa alle operazioni condotte in strumenti di finanza derivata. La Corte dei Conti nel mese di marzo 2013, tramite la Guardia di Finanza, ha chiesto la documentazione inerente alla sola attività di chiusura di un gruppo consistente di operazioni con Morgan Stanley. A fronte di tale richiesta, il Tesoro ha fornito tutta la documentazione richiesta, secondo tempi concordati con la Guardia di Finanza stessa, per ciascuna operazione, inclusi i contratti pregressi dai quali ciascuna operazione ha avuto origine (copia di ciascun contratto e relativo decreto ministeriale con il quale ogni singola operazione è stata formalmente approvata) corredata da una circostanziata relazione esplicativa.

2. La filosofia di fondo dell’operatività in derivati della Repubblica si basa su criteri ispirati al perseguimento dell’interesse dello Stato, mirando alla protezione dai rischi di mercato, primi fra tutti il rischio di cambio e il rischio di tasso di interesse. Con riferimento in particolare a quest’ultimo, l’attività in derivati è stata mirata a conseguire l’allungamento della duration complessiva del debito, al fine di proteggere da un eventuale rialzo dei tassi, pagando tasso fisso e ricevendo variabile. Tale funzione prettamente assicurativa è stata perseguita attraverso IRS (interest rate swap) e opzioni su tassi di interesse (swaption), fissando tassi a lungo termine che, al momento della sottoscrizione, risultavano storicamente ai minimi per la scadenza cui si riferivano. Bloccare attraverso derivati un tasso fisso “a pagare” in contropartita di un tasso variabile “a ricevere” rappresenta una protezione verso futuri shock sui tassi di interesse, situazione peraltro sperimentata dallo Stato italiano a più riprese e con un’evidenza particolarmente significativa a seguito della grave crisi monetaria e finanziaria del 1992. Infatti, se in simili frangenti si devono emettere titoli a breve termine, il rischio di aumento del tasso pagato sul debito all’atto del rinnovo dei titoli in scadenza viene neutralizzato, per la parte coperta, dalla gamba “a ricevere” dello swap (a tasso variabile) ed il costo effettivo viene limitato al corrispettivo tasso fisso “a pagare” nello swap. Come ogni assicurazione, peraltro, ove l’evento verso il quale ci si protegge non si verifichi, si sopporta un costo, che rimane tuttavia giustificato dalla priorità attribuita alla prevenzione di gravi conseguenze in caso di scenari avversi. Il valore di mercato degli strumenti derivati in uno specifico momento, il cosiddetto mark to market, non è in nessun caso assimilabile a una perdita realizzata. Esclusivamente in presenza di specifiche clausole le controparti possono reciprocamente esigerne la corresponsione secondo le modalità previste nei contratti

3. È assolutamente priva di ogni fondamento l’ipotesi che la Repubblica Italiana abbia utilizzato i derivati alla fine degli anni Novanta per creare le condizioni richieste per l’entrata nell’euro. Le operazioni poste in essere all’epoca sono state sempre registrate correttamente secondo una prassi consolidata, nel rispetto dei principi contabili sia nazionali che europei. I controlli effettuati sistematicamente dall’Eurostat a far tempo dalla seconda metà degli anni Novanta, anche quelli conseguenti all’introduzione in più fasi di nuove linee guida sugli strumenti finanziari derivati, hanno sempre confermato la regolarità della contabilizzazione di queste operazioni.

Derivati, perché una notizia vecchia diventa uno scoop?

Qualcosa non torna. Di tutta la vicenda dei derivati italiani sottoscritti dal Tesoro, c’è qualcosa che non collima. Le rivelazioni di Andrea Greco su la Repubblica, riprese immediatamente dal Financial Times che ha ottenuto anch’esso i dossier, lasciano aperti troppi interrogativi. Primo fra tutti, la tempistica. Secondo, la metodologia. Terzo, l’entità della notizia. Occorre però andare con ordine, per capire cosa è successo e cosa sta accadendo.

La tempistica è quantomeno dubbia. Il Tesoro, tanto in Italia così come in tutto il mondo conosciuto, ha fra le armi a sua disposizione la possibilità di aprire swap con banche e istituzioni finanziarie al fine di diluire la spesa, i pagamenti degli interessi sul debito e le altre incombenze. Si è sempre fatto e sempre si farà. Nello specifico, negli ultimi 20 anni l’Italia ha usato diversi stratagemmi contabili per alleviare il proprio debito pubblico, e le spese che esso comporta. Lo sapeva bene il presidente della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi, dal 1991 al 2001 direttore generale del Tesoro e dal 2002 al 2005 vicepresidente e managing director di Goldman Sachs International.

Per stessa ammissione dell’ex sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi Doria, che l’anno scorso ha tenuto un’audizione alla Camera sul tema, i contratti di derivati sottoscritti dall’Italia non sono pochi. Anzi. «Ad oggi il nozionale complessivo di strumenti derivati a copertura di debito emessi dalla Repubblica italiana ammonta a circa 160 miliardi di euro, a fronte di titoli in circolazione, al 31 gennaio 2012, per 1.624 miliardi di euro», ha spiegato Rossi Doria nel 2012. Fra questi, troviamo diverse classi di derivati. Il sottosegretario ha infatti ricordato che di questi «circa 100 miliardi sono interest rate swap, 36 miliardi cross currency swap, 20 swaption e 3,5 miliardi degli swap ex ISPA». Ma perché Rossi Doria ha parlato dei derivati dell’Italia? Perché fra 2011 e 2012 il Tesoro ha chiuso due interest rate swap e due swaption con Morgan Stanley, pagando 2,567 miliardi di euro alla banca statunitense. Apriti cielo. Tutto regolare, però. Merito della clausola Additional termination event (Ate), che da la facoltà alle parti che hanno sottoscritto il contratto di derivati di uscire dalla posizione in via anticipata, nel caso avvenga un determinato evento. In sostanza, una clausola di risoluzione del contratto. Nel caso di Morgan Stanley, ha spiegato Rossi Doria, «tale clausola, risalente alla data di stipula del contratto, nel 1994, era unica e non presente in nessun altro contratto quadro vigente tra il Ministero e le sue controparti, e non è stato possibile, nel corso degli ultimi anni, rinegoziare la stessa». Non era così.

Come avevano spiegato nell’aprile 2012 fonti bancarie a Linkiesta, c’erano almeno altre cinque banche con contratti di derivati sottoscritti con l’Italia contenenti la clausola Ate: BNP Paribas, Deutsche Bank, Dexia, Intesa Sanpaolo, UniCredit. Una prassi, diceva un trader della divisione Fixed Income di una delle maggiori banche italiane a Linkiesta. «È quasi sicuro che siano presenti le clausole Ate perché fino al 2006 i contratti su derivati fra istituzionali e governativi avevano una duration maggiore, anche oltre i 30 anni». E l’introduzione di queste clausole serve a tutelare sia l’emittente del contratto, sia la controparte, in questo caso lo Stato italiano. Per chiudere questi contratti, all’aprile 2012, sarebbero serviti 8,9 miliardi di euro. Cifra che oggi, nel caso i derivati siano gli stessi, è diminuita. Ma vale la pena ricordare che l’Italia ha anche guadagnato dai derivati sottoscritti.

Nel corso del 2011 Eurostat ha passato al vaglio le operazioni sul debito pubblico italiano fra anni Novanta e Duemila. E tutto sommato non è andata male. Nel 1998 la Repubblica italiana ha guadagnato l’equivalente di 3 miliardi di euro, mentre tra il 1999 e il 2001 le entrate provenienti da derivati creditizi sono state pari a 1,048 miliardi. Conto in verde anche per il 2002, con 1,924 miliardi di euro, e per il 2003 e 2004, rispettivamente 705 e 929 milioni di euro. L’ultimo anno in positivo fu il 2005, con 1,016 miliardi di euro, poi un lento declino: meno 163 milioni di euro nel 2006, meno 337 milioni nel 2007, meno 392 milioni nel 2008. Poi, il silenzio. Fino a oggi. Quindi, perché proprio ora emerge tutto, dopo che fra l’altro era già emerso?

Oltre alla tempistica, c’è la metodologia. La mail del Financial Times, con dicitura “FT Exclusive”, è stata inviata nel cuore della notte, alle 2.13. Orario inusuale, dato il periodo di calma piatta e l’assenza di novità. C’è però un particolare che non deve essere sottovalutato. Il presidente del Consiglio Enrico Letta dovrà fronteggiare i leader Ue al Consiglio europeo a partire da domani. Farlo con questa patata bollente, non sarà facile. E nn sarà nemmeno semplice negoziare l’erogazione di nuovi fondi Ue, anche dopo la chiusura della procedura d’infrazione per deficit eccessivo.

Infine, sono tanti i dubbi sull’entità della notizia. Come già spiegato, gli strumenti finanziari, come i derivati, sono sempre stati usati dai governi. Sempre. Punto. È un deal che fa comodo sia allo Stato, che può alleggerire il peso dei propri debiti, sia alla controparte, che si garantisce un flusso di capitali praticamente sicuro. Il 25 giugno Maria Cannata, direttore generale del Debito pubblico del Tesoro, ha spiegato che sta tornando l’appetito degli investitori internazionali sull’Italia. Suggestivo che proprio oggi, cioè stanotte, siano state pubblicate queste rivelazioni.

aggiungo un commento all'articolo che mi sembra molto valido:

Caro Fabrizio,
concordo con te sulla questione della tempistica, e il ruolo che una notizia per alcuni versi stantia possa avere in un momento delicato, di un governo delicato. Però, andandomi a leggere il pezzo di Repubblica, ho trovato tre elementi che per me erano nuovi, e che reputo preoccupanti. Tutti sono legati alla notizia di una relazione della Corte dei Conti in merito a ristrutturazioni del debito fatte nel 2012. Sono rimasto colpito da tre cose:
1) si riporta che le ristrutturazioni sono state fatte come una sorta di cross-selling (diciamo un ricatto, per essere chiari) da parte delle banche per garantire la sottoscrizione del debito. Mi pare di capire che con questa arma le banche sono riuscite a riportare a mark-to-market il rischio di controparte in derivati. In pratica hanno aggiornato il CVA nei confronti dell'emittente repubblica italiana. Se questo è vero, il Tesoro soffre di un problema di concentrazione del funding.
2) il testo riporta in virgolettato la presenza di "wrong way risk", quando afferma che c'è una "forte correlazione inversa (perversa) tra andamento del tratto a lunga della curva swap, valore di mercato del portafoglio e livello dei CDS italiani, con potenziali effetti negativi anche sul mercato primario e secondario dei titoli di stato". Da questo pare di capire che il Tesoro italiano nei suoi contratti riceva variabile e paghi fisso, e l'aumento della correlazione inversa aumenta il rischio di controparte percepito dalle banche (wrong way risk, appunto).
3) l'articolo riporta di un esempio di vendita di una swaption dal Tesoro a una banca. Questa è una notizia che non avrei voluto sentire. Non è mestiere del Tesoro fare il dealer in derivati. Questo lo dovrebbero fare le banche, e le banche stesse possono farlo perché in questo operano come intermediari, coprendo la vendita del derivato "in house" o "back-to-back" con altri intermediari. Dal punto di vista di un operatore che non fa intermediazione, vendere un'opzione significa intascare un premio nella speranza che l'evento assicurato non si verifichi. Si tratta di un comportamento speculativo che non vorremmo fosse posto in atto, e nel caso lo fosse, dovrebbe essere reso trasparente ai titolari dei fondi che vengono gestiti, e cioè quelli che pagano le tasse.
In conclusione, concordo con te sul fatto che la tempistica con cui è stato sollevato il problema sia quanto mai dubbia, ma non c'è dubbio che abbiamo un problema, e che il problema si arricchisca di lineamenti ancora più seri, o almeno poco promettenti, di come appariva all'inizio. Un caro saluto, U.



La Corte dei conti accende un faro sui derivati del Tesoro: 31 miliardi rimodulati. Per ora niente perdite - Il Sole 24 ORE
La Corte dei Conti ha riacceso un faro sull'uso degli strumenti derivati da parte della pubblica amministrazione, per accertarsi che le operazioni poste in essere perseguano l'obiettivo di proteggere i conti pubblici contro i rischi di mercato. La magistratura contabile, in vista del giudizio annuale sui conti previsto per domani, ha chiesto al Tesoro un chiarimento in merito alla rimodulazione e ristrutturazione di alcuni strumenti derivati sui tassi di interesse e di cambio avvenuta nel primo semestre 2012: i dettagli di queste operazioni erano già emersi nella relazione semestrale che puntualmente il Mef invia alla Corte. Il Tesoro ha fornito di recente ulteriori informazioni a questo riguardo, in vista del parere di routine che i magistrati contabili daranno domani sulla gestione del debito pubblico.

Gli strumenti derivati stipulati dalla Repubblica italiana «a copertura del debito» hanno un valore nozionale complessivo pari a circa 160 miliardi di euro a fronte di titoli in circolazione, al 31 gennaio 2012, per 1.624 miliardi. Il portafoglio degli swap del Tesoro, dunque, ammonta a poco meno del 10% dei titoli di Stato in essere. Il valore nozionale (il valore della posizione di debito sottostante al derivato) pari a 160 miliardi è suddiviso in circa 100 miliardi di interest rate swap, 36 miliardi di cross currency swap (sulle valute), 20 swaption e 3,5 miliardi di swap ex Ispa (Infrastrutture spa). Nel dettaglio, i 36 miliardi di swap sulle divise corrispondono «alla quasi totalità» dei bond emessi dal Tesoro nel corso degli anni in valuta estera (in passato gli Italy bond sono stati denominati spesso in dollari Usa, franchi svizzeri, sterline e yen).

Stando a quanto pare emergere nell'ultima relazione semestrale inviata dal Tesoro alla Corte dei Conti, una parte del portafoglio derivati - 31 miliardi circa di valore nozionale su un totalle di 160 - sarebbe stata rimodulata, per soddisfare in parte esigenze di portafoglio delle banche controparti. Il mark-to-market dei derivati delMef, che sono stati fatti come protezione contro le oscillazioni dei tassi d'interesse e di cambio, riflette il valore di mercato delle posizioni in base ai tassi odierni proiettati sul futuro: nel caso di mark-to-market negativo, se il derivato venisse chiuso oggi, la controparte banca riceverebbe dal Tesoro il pagamento dei flussi futuri in base ai tassi attuali.

Senza chiusura anticipata del contratto derivato con mark-to-market negativo, il
pagamento (chiamato anche "perdita potenziale") non viene effettuato: quindi non c'è alcun impatto, alcuna perdita sui conti pubblici perchè i derivati restano in essere. Per stabilire nel concreto una perdita effettiva, tuttavia, non bisogna soltanto valutare l'andamento del contratto derivato ma bisogna tempo stesso tener conto della posizione di debito sottostante alla quale il derivato viene agganciato. L'impatto dei derivati in essere sui titoli di Stato, con un valore nozionale di 160 miliardi su circa 1.600 miliardi di titoli in circolazione, è comunque minimo. E per ora non si può parlare di perdite.

Ringrazio l'utente il natta che ha raccolto questi articoli nel forum di Come don Chisciotte

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