di Aldo Braccio - 17/06/2010
Accadde dieci anni fa : il 27 giugno del 2000 l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) venne messo in liquidazione, chiudendo ogni residuo di intervento pubblico volto ad assicurare una presenza attiva dello Stato nell’economia (1).
Nato nel 1933, l’Istituto rappresentò al suo sorgere la risposta del governo italiano all’onda lunga della crisi finanziaria mondiale innestata dagli USA nel 1929 : contrariamente alle ricette liberiste cui siamo abituati, lo Stato di allora non finanziò con denaro pubblico le banche private speculatrici – lasciando al loro posto azionisti e manager – ma acquisì il controllo del 94 % della Comit e del Banco di Roma, e del 78 % del Credito Italiano. L’immenso patrimonio di partecipazioni industriali delle tre banche fu trasferito all’IRI, cioè allo Stato.
I fondatori dell’IRI – riconosceva un testimone insospettabile, Enrico Cuccia – erano persone “né disponibili, né utilizzabili se non avessero potuto operare al di fuori di qualsiasi interferenza da parte di interessi faziosi o estranei alla cosa pubblica”; e l’Istituto, finanziando con prestiti obbligazionari garantiti dallo Stato le sue imprese, divenne il promotore e il garante dell’interesse pubblico nello sviluppo produttivo, sottraendo alle banche speculative il controllo e il diritto di vita e di morte sull’economia reale.
Nel dopoguerra, L’IRI contribuì – pur tra gestioni e politiche spesso di tipo clientelare – a sviluppare le grandi infrastrutture e l’attività produttiva del Paese, a partire dal Piano Sinigaglia del 1948 a favore di una forte ripresa della siderurgia nazionale.
L’energia a costi contenuti fornita dall’ENI di Mattei alimentava quella sorta di miracolo italiano in cui capitale privato e capitale di Stato operavano fianco a fianco:
grandi investimenti vi furono anche nel Meridione d’Italia, con la costruzione dell’Italsider di Taranto e dell’Alfa sud di Pomigliano d’Arco. L’IRI ha anche funzionato da ammortizzatore nella grande crisi industriale italiana (1975 – 1985) conseguente allo shock petrolifero dell’epoca.
A partire dagli anni Settanta, però, crebbe enormemente l’esposizione dell’IRI verso le banche : il famigerato indebitamento, destinato a strozzare questo ente pubblico, già tacciato di “assistenzialismo” e già additato come “carrozzone” asservito alla politica. L’Economist fece naturalmente la sua parte titolando nel 1981 “Fogne aperte” un suo articolo sulle aziende pubbliche italiane.
L’anno dopo, iniziò la ristrutturazione/demolizione dell’Istituto sotto la presidenza di Romano Prodi, e, da allora la svendita (privatizzazione) del sistema aziendale pubblico italiano divenne applaudita realtà. L’accordo Andreatta – Van Miert (rispettivamente ministro del Tesoro italiano e commissario europeo alla concorrenza) del luglio 19933 sanciva l’impegno di stabilizzare i debiti dell’IRI (così come dell’ENI e dell’ENEL), con l’inevitabile conseguente necessità di privatizzare urgentemente le aziende partecipate.
Nel giugno 2000, come ricordavamo all’inizio, la messa in liquidazione.
Con essa il tramonto definitivo (?) della funzione di responsabilità – di governo dell’economia – svolta dallo Stato, il cui ruolo è ormai diventato soltanto di surrogazione (di ruota di scorta) del settore privato : intervenire con il denaro pubblico per riparare gli errori, le contingenze negative e le mascalzonate compiute da alcuni imprenditori e tanti speculatori privati.
Note
(1) Sulla storia dell’IRI si veda il fondamentale “I giorni dell’IRI – Storie e misfatti da Beneduce a Prodi”, di Massimo Pini, Mondadori 2000. Stretto collaboratore di Craxi e fondatore della SugarCo, Pini fece parte del comitato di presidenza dell’IRI tra il 1986 e il 1992. Una efficace sintesi delle vicende dell’Istituto è tracciata da Mario Consoli, “L’economia al servizio della nazione”, in L’Uomo libero n° 69 – maggio 2010, pp. 21 – 37.
Fonte: cpeurasia
Accadde dieci anni fa : il 27 giugno del 2000 l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) venne messo in liquidazione, chiudendo ogni residuo di intervento pubblico volto ad assicurare una presenza attiva dello Stato nell’economia (1).
Nato nel 1933, l’Istituto rappresentò al suo sorgere la risposta del governo italiano all’onda lunga della crisi finanziaria mondiale innestata dagli USA nel 1929 : contrariamente alle ricette liberiste cui siamo abituati, lo Stato di allora non finanziò con denaro pubblico le banche private speculatrici – lasciando al loro posto azionisti e manager – ma acquisì il controllo del 94 % della Comit e del Banco di Roma, e del 78 % del Credito Italiano. L’immenso patrimonio di partecipazioni industriali delle tre banche fu trasferito all’IRI, cioè allo Stato.
I fondatori dell’IRI – riconosceva un testimone insospettabile, Enrico Cuccia – erano persone “né disponibili, né utilizzabili se non avessero potuto operare al di fuori di qualsiasi interferenza da parte di interessi faziosi o estranei alla cosa pubblica”; e l’Istituto, finanziando con prestiti obbligazionari garantiti dallo Stato le sue imprese, divenne il promotore e il garante dell’interesse pubblico nello sviluppo produttivo, sottraendo alle banche speculative il controllo e il diritto di vita e di morte sull’economia reale.
Nel dopoguerra, L’IRI contribuì – pur tra gestioni e politiche spesso di tipo clientelare – a sviluppare le grandi infrastrutture e l’attività produttiva del Paese, a partire dal Piano Sinigaglia del 1948 a favore di una forte ripresa della siderurgia nazionale.
L’energia a costi contenuti fornita dall’ENI di Mattei alimentava quella sorta di miracolo italiano in cui capitale privato e capitale di Stato operavano fianco a fianco:
grandi investimenti vi furono anche nel Meridione d’Italia, con la costruzione dell’Italsider di Taranto e dell’Alfa sud di Pomigliano d’Arco. L’IRI ha anche funzionato da ammortizzatore nella grande crisi industriale italiana (1975 – 1985) conseguente allo shock petrolifero dell’epoca.
A partire dagli anni Settanta, però, crebbe enormemente l’esposizione dell’IRI verso le banche : il famigerato indebitamento, destinato a strozzare questo ente pubblico, già tacciato di “assistenzialismo” e già additato come “carrozzone” asservito alla politica. L’Economist fece naturalmente la sua parte titolando nel 1981 “Fogne aperte” un suo articolo sulle aziende pubbliche italiane.
L’anno dopo, iniziò la ristrutturazione/demolizione dell’Istituto sotto la presidenza di Romano Prodi, e, da allora la svendita (privatizzazione) del sistema aziendale pubblico italiano divenne applaudita realtà. L’accordo Andreatta – Van Miert (rispettivamente ministro del Tesoro italiano e commissario europeo alla concorrenza) del luglio 19933 sanciva l’impegno di stabilizzare i debiti dell’IRI (così come dell’ENI e dell’ENEL), con l’inevitabile conseguente necessità di privatizzare urgentemente le aziende partecipate.
Nel giugno 2000, come ricordavamo all’inizio, la messa in liquidazione.
Con essa il tramonto definitivo (?) della funzione di responsabilità – di governo dell’economia – svolta dallo Stato, il cui ruolo è ormai diventato soltanto di surrogazione (di ruota di scorta) del settore privato : intervenire con il denaro pubblico per riparare gli errori, le contingenze negative e le mascalzonate compiute da alcuni imprenditori e tanti speculatori privati.
Note
(1) Sulla storia dell’IRI si veda il fondamentale “I giorni dell’IRI – Storie e misfatti da Beneduce a Prodi”, di Massimo Pini, Mondadori 2000. Stretto collaboratore di Craxi e fondatore della SugarCo, Pini fece parte del comitato di presidenza dell’IRI tra il 1986 e il 1992. Una efficace sintesi delle vicende dell’Istituto è tracciata da Mario Consoli, “L’economia al servizio della nazione”, in L’Uomo libero n° 69 – maggio 2010, pp. 21 – 37.
Fonte: cpeurasia
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