per la saga svendesi vedasi anche Povera Italia, anche la riscossione tributi finisce in mano agli stranieri
All'interno della boutade
parlamentare di queste settimane, che tra ciò che resta del mese di
settembre e soprattutto ottobre si appresta a far arrivare in aula una
selva di provvedimenti da approvare, ivi incluso il patto di stabilità che in pratica sarà una nuova manovra da circa 20 miliardi (almeno
tale è la cifra che si fa in queste ore), è facile perdere di vista
alcuni dettagli fondamentali di quanto sta accadendo o per accadere.
Ma è proprio nei dettagli che sfuggono, invece, che si annidano i più grandi cambiamenti in corso. Mentre per le cose macroscopiche è facile accorgersi di quanto accade - ammesso che ci se ne voglia accorgere o che non si sia del tutto ipnotizzati dal nulla che ci circonda - per le cose più piccole è più difficile coglierne la portata epocale.
Tra queste ve ne è una, nel minestrone comunicativo che sta passando all'opinione pubblica come "Sblocca Italia", che segna un cambiamento profondo non solo dal punto di vista del linguaggio, ma proprio da quello fattuale. E che riguarda l'Italia nel suo complesso.
Il tema è quello dell'esproprio dalle funzioni e dalle "proprietà pubbliche" di alcuni elementi essenziali i quali vengono spinti, con l'agevolezza tipica del metodo di mala informazione che non consente ai cittadini di conoscere e capire quanto sta accadendo, verso le tasche, o meglio i portafogli, della speculazione. Di chi, cioè, in luogo dal voler svolgere un servizio pubblico, intende invece guadagnare.
A suo tempo, quando correva ancora l'era Berlusconi, ci si provò con l'acqua pubblica, e una mobilitazione di massa, sfociata poi nel referendum, bocciò la possibilità che un bene di tale portata e significato andasse a finire del tutto nelle mani private. Oggi, al terzo governo incostituzionale avallato da Napolitano, ci si prova con altri settori e, appunto, con un cambiamento epocale.
Lo Sblocca Italia di Renzi infatti obbliga - letteralmente: obbliga - gli enti locali che gestiscono alcuni servizi come il trasporto pubblico o il servizio rifiuti a collocarne in Borsa il 60%. In alternativa, si potrà collocare una quota ridotta ma a patto che la parte eccedente venga privatizzata fino alla cessione del 49.9%.
Si nota subito il cambio di passo e la direzione verso la quale si obbliga ad andare. Se fino al 2011, come detto, si puntava alle privatizzazioni, ora si impone di saltare anche questo passo rendendo legge l'obbligo di approdare direttamente in Borsa.
In caso in cui l'ente locale tipo non accettasse tale imposizione, entro un anno dal varo della norma dovrà indire una nuova gara per l'appalto con il rischio di un prolungamento della concessione per la modica durata di 22 anni e 6 mesi.
Naturalmente gli enti locali saranno letteralmente costretti a collocare in Borsa i servizi, perché in questo modo atterranno un po' di ossigeno per le loro casse esangui. Le somme derivanti dalla cessione delle quote potrebbero essere utilizzate, ad esempio dai Comuni, in deroga alle tenaglie attuali del patto di stabilità. I pratica dovranno farlo obtorto collo. Al momento, né da Fassino né da alcun altro esponente dell'Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani) si è levato un solo parere almeno contrario, figuriamoci di sdegno.
Già adesso, qualcuno se ne sarà accorto, si vocifera della possibilità, da parte dei Comuni, di affidare, ovvero cedere - per usare un eufemismo - ai cittadini privati la manutenzione di alcune infrastrutture di stretta vicinanza offrendo loro in cambio uno sconto sulla Tasi (in aumento esponenziale per tutti rispetto all'Ici di una volta): è in pratica una ammissione di bancarotta. Il Comune, non avendo denaro per poter, ad esempio, riparare un manto stradale danneggiato (e sappiamo in quali condizioni versino alcune strade di pertinenza comunale) offrono al cittadino privato la possibilità di farsi carico direttamente della sua riparazione con la promessa di avere in cambio uno sconto, ancora non quantificato, sulle tasse da pagare. In altre parole, il Comune ammette di non avere denaro per poter far fronte alla manutenzione di alcunché, e dunque incita i cittadini a fare a livello personale ciò che lo Stato non è in grado di fare.
Sia nel primo sia nel secondo caso, ribadiamo, si tratta di cambiamenti epocali. Un servizio essenziale, come la raccolta rifiuti oppure il trasporto pubblico, ceduto ai mercati, entrerebbe fatalmente nell'alveo della speculazione più pura. Ad esempio con la perversa logica che vuole, in occasione del taglio di posti di lavoro, che le azioni della azienda interessata acquistino valore dall'operazione. Gli azionisti, puntando al massimo guadagno, spingerebbero i board delle nuove Spa a operare tutta una serie di cambiamenti sul servizio con il solo obiettivo di far salire la quotazione in Borsa. E i propri dividendi. Con buona pace dell'efficienza del servizio stesso.
Sull'altro versante, si assiste poi ai primi segnali evidenti dell'abbandono dello Stato nei confronti delle sue funzioni. Non avendo denaro per fare più nulla, si spinge il privato a fare da sé. È un precedente importante. Perché di pari passo si potrebbe arrivare fatalmente a spingere il privato a fare da sé anche in altri settori ove lo Stato non arriva: oggi la manutenzione e domani? La sanità? L'ordine pubblico?
Non si tratta di una provocazione: è la realtà che sta cambiando di giorno in giorno.
Dal punto di vista della governance è un passaggio chiave: è in atto la trasformazione più brutale del "pubblico" da erogatore di servizi (dopo aver raccolto le tasse) a oggetto per l'espansione degli interessi finanziari e speculativi sulla società e fin dentro ai servizi essenziali locali. È come se d'un tratto le "privatizzazioni" fossero state ormai superate e diventate obsolete, tanto dal far scattare una offensiva ancora maggiore, e imposta per legge, "viste le necessità economiche del momento", verso l'ulteriore stadio della speculazione: cioè direttamente in Borsa.
Il quadro che si delinea è chiaro da interpretare e scuro per le ricadute sulle società: i servizi più ghiotti verranno divorati dalla gestione dei mercati, quelli meno nobili e di maggiore prossimità al cittadino verranno lasciati dalla gestione statale alla "buona volontà" del singolo cittadino. Che a questo punto, viene facile da sottolineare, non si capisce che cosa dovrebbe più riconoscere allo Stato.
Valerio Lo Monaco
Il ribelle
Ma è proprio nei dettagli che sfuggono, invece, che si annidano i più grandi cambiamenti in corso. Mentre per le cose macroscopiche è facile accorgersi di quanto accade - ammesso che ci se ne voglia accorgere o che non si sia del tutto ipnotizzati dal nulla che ci circonda - per le cose più piccole è più difficile coglierne la portata epocale.
Tra queste ve ne è una, nel minestrone comunicativo che sta passando all'opinione pubblica come "Sblocca Italia", che segna un cambiamento profondo non solo dal punto di vista del linguaggio, ma proprio da quello fattuale. E che riguarda l'Italia nel suo complesso.
Il tema è quello dell'esproprio dalle funzioni e dalle "proprietà pubbliche" di alcuni elementi essenziali i quali vengono spinti, con l'agevolezza tipica del metodo di mala informazione che non consente ai cittadini di conoscere e capire quanto sta accadendo, verso le tasche, o meglio i portafogli, della speculazione. Di chi, cioè, in luogo dal voler svolgere un servizio pubblico, intende invece guadagnare.
A suo tempo, quando correva ancora l'era Berlusconi, ci si provò con l'acqua pubblica, e una mobilitazione di massa, sfociata poi nel referendum, bocciò la possibilità che un bene di tale portata e significato andasse a finire del tutto nelle mani private. Oggi, al terzo governo incostituzionale avallato da Napolitano, ci si prova con altri settori e, appunto, con un cambiamento epocale.
Lo Sblocca Italia di Renzi infatti obbliga - letteralmente: obbliga - gli enti locali che gestiscono alcuni servizi come il trasporto pubblico o il servizio rifiuti a collocarne in Borsa il 60%. In alternativa, si potrà collocare una quota ridotta ma a patto che la parte eccedente venga privatizzata fino alla cessione del 49.9%.
Si nota subito il cambio di passo e la direzione verso la quale si obbliga ad andare. Se fino al 2011, come detto, si puntava alle privatizzazioni, ora si impone di saltare anche questo passo rendendo legge l'obbligo di approdare direttamente in Borsa.
In caso in cui l'ente locale tipo non accettasse tale imposizione, entro un anno dal varo della norma dovrà indire una nuova gara per l'appalto con il rischio di un prolungamento della concessione per la modica durata di 22 anni e 6 mesi.
Naturalmente gli enti locali saranno letteralmente costretti a collocare in Borsa i servizi, perché in questo modo atterranno un po' di ossigeno per le loro casse esangui. Le somme derivanti dalla cessione delle quote potrebbero essere utilizzate, ad esempio dai Comuni, in deroga alle tenaglie attuali del patto di stabilità. I pratica dovranno farlo obtorto collo. Al momento, né da Fassino né da alcun altro esponente dell'Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani) si è levato un solo parere almeno contrario, figuriamoci di sdegno.
Già adesso, qualcuno se ne sarà accorto, si vocifera della possibilità, da parte dei Comuni, di affidare, ovvero cedere - per usare un eufemismo - ai cittadini privati la manutenzione di alcune infrastrutture di stretta vicinanza offrendo loro in cambio uno sconto sulla Tasi (in aumento esponenziale per tutti rispetto all'Ici di una volta): è in pratica una ammissione di bancarotta. Il Comune, non avendo denaro per poter, ad esempio, riparare un manto stradale danneggiato (e sappiamo in quali condizioni versino alcune strade di pertinenza comunale) offrono al cittadino privato la possibilità di farsi carico direttamente della sua riparazione con la promessa di avere in cambio uno sconto, ancora non quantificato, sulle tasse da pagare. In altre parole, il Comune ammette di non avere denaro per poter far fronte alla manutenzione di alcunché, e dunque incita i cittadini a fare a livello personale ciò che lo Stato non è in grado di fare.
Sia nel primo sia nel secondo caso, ribadiamo, si tratta di cambiamenti epocali. Un servizio essenziale, come la raccolta rifiuti oppure il trasporto pubblico, ceduto ai mercati, entrerebbe fatalmente nell'alveo della speculazione più pura. Ad esempio con la perversa logica che vuole, in occasione del taglio di posti di lavoro, che le azioni della azienda interessata acquistino valore dall'operazione. Gli azionisti, puntando al massimo guadagno, spingerebbero i board delle nuove Spa a operare tutta una serie di cambiamenti sul servizio con il solo obiettivo di far salire la quotazione in Borsa. E i propri dividendi. Con buona pace dell'efficienza del servizio stesso.
Sull'altro versante, si assiste poi ai primi segnali evidenti dell'abbandono dello Stato nei confronti delle sue funzioni. Non avendo denaro per fare più nulla, si spinge il privato a fare da sé. È un precedente importante. Perché di pari passo si potrebbe arrivare fatalmente a spingere il privato a fare da sé anche in altri settori ove lo Stato non arriva: oggi la manutenzione e domani? La sanità? L'ordine pubblico?
Non si tratta di una provocazione: è la realtà che sta cambiando di giorno in giorno.
Dal punto di vista della governance è un passaggio chiave: è in atto la trasformazione più brutale del "pubblico" da erogatore di servizi (dopo aver raccolto le tasse) a oggetto per l'espansione degli interessi finanziari e speculativi sulla società e fin dentro ai servizi essenziali locali. È come se d'un tratto le "privatizzazioni" fossero state ormai superate e diventate obsolete, tanto dal far scattare una offensiva ancora maggiore, e imposta per legge, "viste le necessità economiche del momento", verso l'ulteriore stadio della speculazione: cioè direttamente in Borsa.
Il quadro che si delinea è chiaro da interpretare e scuro per le ricadute sulle società: i servizi più ghiotti verranno divorati dalla gestione dei mercati, quelli meno nobili e di maggiore prossimità al cittadino verranno lasciati dalla gestione statale alla "buona volontà" del singolo cittadino. Che a questo punto, viene facile da sottolineare, non si capisce che cosa dovrebbe più riconoscere allo Stato.
Valerio Lo Monaco
Il ribelle
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