lunedì 5 dicembre 2011

LA CRISI E L'UNIONE EUROPEA: CONFLITTO D'INTERESSI O SOLO INTERESSI?
“Da un lato stiamo riducendo il potere degli Stati e del settore pubblico attraverso privatizzazioni e deregolamentazione … Dall’altro stiamo trasferendo molti poteri dei governi nazionali ad una struttura più moderna a livello europeo. L’unificazione europea sta andando avanti, aiutando molto i nostri affari”
Daniel Janssen, ex presidente della European Roundtable of Industrialists (ERT), 2000

Conflitto d’interessi. Questa espressione ha dominato il dibattito politico italiano delle ultime due decadi, e probabilmente continuerà a farlo. A prescindere dalla reazione «emotiva» alla fine del governo Berlusconi che è divampata sulla stampa ed i media europei, è sicuramente un altro, e più alto, il conflitto di interessi che dovrebbe smuovere le nostre coscienze e farci riflettere sulla situazione attuale. Una commistione istituzioni/interessi privati economico-finanziari che, senza dubbio, incide in misura immensamente maggiore sulla realtà politica ed economica del nostro Paese e, in generale, degli Stati membri dell’Unione europea. Nell’ultimo ventennio la politica europea ed il ruolo degli Stati ha subito dei mutamenti che troppo spesso sono rimasti dietro le quinte e mai oggetto, se non in aspetti marginali e conditi della sola retorica «filo-europeista», di un dibattito aperto presso i cittadini

e le opinioni pubbliche dei Paesi membri. Il Trattato di Maastricht e, in ultimo, il Trattato di Lisbona, insieme all’adozione della moneta unica europea e le altre tappe del percorso UE, ha portato negli anni ad una progressiva erosione di sovranità – politica, legislativa ed economica – dei singoli Stati ed un accentramento, a livello di istituzioni europee, di prerogative nazionali. Un trasferimento di sfere e poteri cui ci siamo letteralmente affidati acriticamente, a parte qualche sparuta voce all’interno dei vari contesti nazionali, e che abbiamo accettato senza chiederci dove il «processo di integrazione» ci stesse conducendo, con il risultato che il governo che esce vincitore dalle elezioni politiche nazionali incide, ad oggi, in maniera assai relativa sulla vita quotidiana dei cittadini, lasciando a istituzioni sovranazionali, per lo più non elette da alcun cittadino europeo, la disciplina di ambiti vitali. Un trasferimento di poteri che ha indotto l’allora ministro dell’Economia Tremonti, in una dichiarazione rilasciata alla Reuters nel gennaio di quest’anno, ad affermare che “questo processo porterà a un colossale trasferimento di sovranità… le politiche di bilancio ora non sono più nelle mani dei governi nazionali” . Nel momento in cui ai popoli europei era stato consentito di dire la loro sull’adozione o meno della Costituzione Europea, gli olandesi ed i francesi hanno detto NO nelle rispettive sedi referendarie, nel 2005. Il loro parere è stato elegantemente ignorato, facendo uscire la Costituzione dalla porta e poi rientrare dalla finestra sotto forma di Trattato, appunto, il Trattato di Lisbona. In merito alle modalità con cui quest’ultimo è stato adottato, assai significative sono le parole pronunciate da Valery Giscard d’Estaing, presidente della Convenzione costituzionale ed ex presidente francese: “Il Trattato di Lisbona è tale e quale alla Costituzione bocciata (dai referendum francese ed olandese nda). Solo la forma è stata modificata, proprio per evitare i referendum”. Come ugualmente esplicative sono le dichiarazioni di Giuliano Amato, rilasciate nel luglio del 2007, durante un suo intervento al Centro per la Riforma Europea di Londra: “Fu deciso che il documento fosse illeggibile, poiché così non sarebbe stato costituzionale (evitando così i referendum, nda). Fosse invece stato comprensibile, vi sarebbero state ragioni per sottoporlo a referendum, perché avrebbe significato che c’era qualcosa di nuovo (rispetto alla Costituzione bocciata nel 2005, nda)”. L’ex Primo Ministro irlandese, Garret FitzGerald, dalle pagine dell’Irish Times del 30 giugno 2007, fece notare come «i cambiamenti apportati al testo costituzionale non hanno effetti pratici. Sono stati semplicemente pensati affinchè i capi di governo potessero vendere alle loro nazioni la via della ratifica parlamentare, anzichè attraverso referendum». Come a dire: ci interessa il vostro parere solo se coincide con il nostro. Un episodio che oltre a porre prepotentemente sul piatto la questione del “deficit democratico” del percorso di costruzione dell’Europa, ci indirizza verso questioni di importanza cruciale e che in questa sede ci interessa analizzare: quali interessi vengono promossi a Bruxelles e come si sviluppa il processo decisionale soprattutto presso la Commissione Europea, il nuovo «esecutivo» del Vecchio continente. I principi di legittimità e trasparenza, tanto invocati in passato, vengono effettivamente rispettati? Si sta davvero costruendo “l’Europa dei cittadini”?

Ci sono diversi elementi che meritano di essere approfonditi, attori che influenzano, con assoluto successo visti i risultati, gli indirizzi e le politiche della Commissione. Il tracollo economico-finanziario, anche frutto di un processo di deregolamentazione a ritmi forsennati del settore, non ha fatto altro che acuire, con le sue drammatiche conseguenze nella vita reale delle popolazioni europee, alcune delle agghiaccianti contraddizioni in seno allo stesso establishment dell’Unione.
Bruxelles: il paradiso delle Lobbies. Quali interessi? Chi decide davvero?

E’ difficile fare una stima riguardo il numero esatto di lobbies e gruppi di interesse che compongono la folta costellazione che ha sede a Bruxelles.
Un numero approssimativo fissa intorno a quindicimila i lobbisti professionisti. Oltre il 70% lavora al servizio del grande business; il 20% di essi rappresenta gli interessi di regioni, città ed altre istituzioni internazionali, mentre solo il 10% promuove le istanze della società civile, gruppi ambientalisti, associazioni di consumatori, sindacati, ecc…

Come organo che, di fatto, prende le decisioni e le applica, in qualità di nuovo «esecutivo» dell’Unione, è nei corridoi della Commissione Europea che si concentrano tutti gli sforzi dei gruppi di interesse, sempre tenendo conto della sproporzione di cui sopra. Ma andiamo ad analizzare chi sono queste lobbies che concretamente determinano, su una nutrita gamma di sfere ed ambiti, la politica europea.
Il Transatlantic Business Dialogue (TABD).
Si tratta senza dubbio della più ampia e strutturata alleanza tra grandi corporations e Stati, forse la più potente lobby industriale del mondo.
Fondata nel 1995, essa costituisce una piattaforma di dialogo costante tra la Commissione Europea, i rappresentanti del governo nordamericano e i leader del grande business “made in USA” ed europeo. I suoi incontri «permettono scambi di visioni e discussioni intorno alle scelte politiche tra i leader del business mondiale, i rappresentanti del governo statunitense ed i commissari dell’UE, al fine di sviluppare una stretta connessione tra il grande business ed i governi per risolvere specifici problemi, promuovere la cooperazione transatlantica e migliorare le opportunità di affari”. Nella lista dei suoi membri compaiono veri giganti multinazionali quali Ford, British American Tobacco, British Petroleum, BASF, Deloitte, Hernst&Young, Deutsche Bank, Microsoft, Pfitzer, Siemens, Thyssenkrupp, solo per citarne alcuni. Solo la Pfitzer, il colosso farmaceutico, ha un fatturato che eguaglia quello dei 18 Stati africani più ricchi. Come documentato dal giornalista Paolo Barnard, il TABD arriva al punto di presentare annualmente sul tavolo della Commissione una lista di priorità, sulla cui attuazione la Commissione si esprime dandosi letteralmente dei voti e manifestando tutte le migliori intenzioni per soddisfare le loro richieste, laddove la sua azione si fosse rivelata lacunosa. D’altronde, sulla “incisività” dell’azione del TABD si è espresso, nel 1997, l’allora Commissario europeo al Commercio, affermando come “il Trans Atlantic Business Dialogue è diventato un meccanismo efficace per ancorare le politiche dei governi agli interessi dei gruppi di affari.” E sulla «apertura» della Commissione verso tali raccomandazioni sono eloquenti le parole espresse, sempre nel 1997, dall’allora vice presidente della Commissione UE, nell’ambito di un intervento dinanzi ai rappresentanti delle industrie chimiche: “Siate puntuali, e cioè diteci per tempo se pensate che qualcosa debba essere fatto, o, ancora meglio, se pensate che qualcosa debba essere stroncato sul nascere.” La sua influenza sui processi decisionali ha indotto diversi accademici a definire il TABD come una nuova forma di governance, una commistione poteri pubblici/privati di immense proporzioni: ”Il TABD – fa notare Maria Green-Cowles, studiosa americana, esperta dell’argomento – offusca la tradizionale distinzione tra governance pubblica e privata, introducendone una in cui i businessmen negoziano di fatto in forum quadrilaterali con i governi». Un’influenza, come contenuto nel nome, che opera sulle due sponde dell’Atlantico. In un summit del TABD che risale al 1998, nei primi anni di vita della lobby, in cui essa peraltro portò a casa i più grandi successi, l’allora vice presidente degli Stati Uniti Al Gore dichiarò rivolgendosi ai presenti: «So che andate orgogliosi del fatto che più del 50% delle vostre raccomandazioni sono state tradotte in legge negli ultimi tre anni (dalla nascita del TABD nda)». Nel 2000, Pascal Lamy, attuale direttore generale del WTO (World Trade Organization), allora Commissario UE al Commercio nominato dal suo presidente Romano Prodi, rassicurò gli industriali del TABD che la Commissione “stesse facendo del suo meglio per mettere in pratica» le loro raccomandazioni. In quell’occasione Lamy proseguì elencando una serie di punti sui quali il TABD avrebbe voluto posticipare, indebolire o abolire completamente proposte o leggi esistenti, adottate dai governi, che avevano lo scopo di mettere dei paletti al grande business. Punti come l’adozione del principio di precauzione, sui quali Lamy affermò come «si siano fatti dei grandi progressi». Sulla strada della deregolamentazione, ovviamente, chini ai voleri del TABD. L’introduzione di un nuovo paradigma di liberalizzazione del mercato, in cui gli «elementi medi» vengono estromessi dal dialogo, «che per estensione – fa notare Public Citizen – significa estromettere i cittadini europei ed i consumatori, sindacati, organizzazioni ambientaliste e dei lavoratori».
BusinessEurope.
E` composta da quarantuno federazioni nazionali di imprenditori ed industriali di trentacinque Paesi «che lavorano insieme per la crescita e la competitività in Europa». Proprio in nome della competitivness, la competitivita, principio aureo del processo di Lisbona, BE ha giustificato l’elaborazione di misure che sono state fatte proprie dalla Commissione Europea, praticamente in modo integrale. Misure che hanno un impatto economico e sociale drammatico sulle popolazioni delle nazioni europee.
Quando il 25 marzo del 2011, il Consiglio Europeo ha approvato Europact, Il Patto per l’Euro, un pacchetto di misure scritto dalla Commissione, si nota come esse siano praticamente speculari rispetto alle «raccomandazioni» di BE. Tra di esse si legge, tra le altre, che «gli aumenti notevoli e continuati del costo del lavoro (leggi stipendi nda) possono erodere la competitività»; le pensioni devono essere riformate «allineando il sistema pensionistico alla situazione demografica nazionale, per esempio allineando l’età pensionistica con l’aspettativa di vita»; ancora, si impone di «rivedere le strutture decisionali sui salari e dove necessario il grado di centralizzazione di tale contrattazione»; si prevede l’introduzione di leggi interne «di natura sufficientemente severa e duratura», che i singoli Stati dovranno adottare al fine di porre, come usato nel linguaggio di BE, «barriere al deficit pubblico». Nell’attuazione di tali misure, alla Commissione spetta il ruolo di arbitro supremo, con il compito di monitorarne l’obbediente applicazione da parte dei governi nazionali. Continua il processo di espoliazione delle prerogative statali, dei governi che noi cittadini eleggiamo. Quindi, maggiore produttività accompagnata dalla riduzione degli stipendi. Ancora, «promuovere flessibilità e sicurezza dell’impiego», “come dire di aumentare le vendite di auto e migliorare la respirabilità dell’aria”, fa notare Barnard. Ciò che risalta agli occhi, oltre, naturalmente, alle conseguenze sulla vita reale di tali provvedimenti, è l’assoluta subordinazione della più importante tra le istituzioni politiche del nostro continente a poteri economici e finanziari i cui interessi sono di segno opposto rispetto alle istanze dei cittadini europei.

BusinessEurope è stato l’interlocutore principale della Commissione quando essa stava lavorando sul progetto «Global Europe», un nuovo quadro di iniziative in materia di politiche commerciali europee che ruota attorno alla conclusione di accordi regionali e bilaterali di libero scambio con Paesi terzi.
Lanciato nel 2006 dall’allora Commissario al Commercio Peter Mandelson, Global Europe incarna, in particolare nella sua agenda esterna, il meglio del mantra neoliberista, spingendo verso lo smantellamento di «barriere», quali possono essere regolamentazioni in ambito sociale ed ambientale. Un piano, come dichiarato il 4 ottobre del 2006 da Celine Charveriat di Oxfam International, “ideato non per favorire la competitività, ma per esportare disuguaglianza e povertà”. Il 26 giugno del 2006, la Commissione inviò una bozza del testo a BE, estromettendo dalla dialettica ONG e sindacati. A molti incontri intorno a Global Europe, BE fece da tramite con altre importanti lobbies, come la European Services Forum (ESF), fondata dall’ex Commissario al Commercio dell’UE Leon Brittan, che al momento è un lobbista professionista per conto dell’industria dei servizi finanziari di Londra. Il 28 ottobre 2008, BE ha organizzato una conferenza, “Going Global: the Way Forward”, al fine di valutare i primi due anni di Global Europe. Dove? L’evento si svolse nell’edificio Charlemagne di Bruxelles: la sede della DG Trade, la Direzione Generale del Commercio della Commissione UE. Philippe de Buck di BusinessEurope ha candidamente dichiarato: «Quando la strategia è stata lanciata, ho chiesto al Commissario Mandelson di agire più spesso nelle vesti di Ambasciatore UE per l’Accesso al Mercato nel mondo. Penso gli piacesse questo incarico. O almeno ha preso questo nuovo incarico molto seriamente».

Tra i potenti gruppi di interesse che rappresentano il mondo del grande business non si può non considerare il peso che la
European Roundtable of Industrialists (ERT) ha tuttora sull’adozione di decisioni a livello di governo europeo. L’ERT raccoglie circa quarantacinque dirigenti delle maggiori multinazionali tra cui Siemens, BMW, Total, Renault, BASF, Thyssenkrupp e le italiane Fiat, Eni, Cir e Telecom. La sua influenza sulla Commissione si è rivelata assai efficace in più di un’occasione. Sempre in nome della “competitiveness”, la liberalizzazione dei servizi, auspicata fortemente dalla ERT, “è stata intrapresa dall’UE, minacciando il mercato del lavoro in diversi Stati membri”, si sottolinea in un rapporto del Corporate Europe Observatory del gennaio di quest’anno. “Le politiche sociali sono state accantonate - prosegue il rapporto – ed il processo decisionale accelerato e privato di un aperto dibattito. Con modalità che sono al servizio del grande business, lasciando inascoltate altre voci”.
I Gruppi di Esperti.
La formazione di «expert groups» – o «High Level Groups», quando composti da Commissari UE, europarlamentari o alti dirigenti – costituiscono forse il metodo di consulenza più frequentemente utilizzato dalla Commissione Europea. Ciò che esce da tali gruppi rappresenta spesso la struttura portante della legislazione fatta propria dalla Commissione. Anche qui l’influenza del grande business è schiacciante.
Nel 2006-2007 venne costituito un High Level Group sulla Competitività, Energia ed Ambiente. Vennero invitati a partecipare anche membri del Parlamento Europeo, i quali rifiutarono di prendervi parte in quanto il gruppo, a parer loro, «minava l’indipendenza delle Istituzioni europee». Come confutare l’argomentazione alla base del loro diniego? Il Gruppo, infatti, era composto da rappresentanti di otto Stati membri, un sindacato, due organizzazioni ambientaliste e ben quattordici delegati di aziende multinazionali del calibro della British Petroleum, Siemens e Areva. C’è poi il caso del «Gruppo Larosiere», per la Regolamentazione finanziaria a livello europeo, che prende il nome dal suo coordinatore Jacques de Larosiere, ex consulente della banca francese BNP e co-direttore della lobby operante nel settore finanziario EuroFi. Costituito alla fine del 2008 per iniziativa dei capi di Stato e di governo e dal presidente della Commissione Barroso, il ristretto consesso di esperti fu chiamato a suggerire ricette per uscire dalla crisi. Cinque dei suoi otto membri lavoravano per il settore finanziario privato, in banche di investimento implicate nella crisi, mentre gli altri tre comprendevano l’ex capo dell’Authority inglese sui Servizi Finanziari, la stessa che, in sostanza, aveva il compito di prevenire la crisi, un ardente sostenitore della «deregolamentazione» del settore ed un dirigente di una banca pubblica. Il report prodotto dal gruppo, dove non si menzionava, se non marginalmente, la necessità di regolamentare il settore, venne pienamente sostenuto dalla Commissione come antidoto alla crisi finanziaria globale. Siamo alla malattia chiamata a guarire il malato. In uno studio approfondito sui gruppi di esperti, svolta da ALTER-EU si conclude come «la Commissione cerchi la sua legittimità di governo non dalla società civile europea, ma esclusivamente dal settore finanziario privato».
BCE. Davvero indipendente?
Il magma di commistioni, quando non vere e proprie assimilazioni, tra grandi interessi privati e processo decisionale, non risparmia la Banca Centrale Europea. Il Trattato di Lisbona consacra l’indipendenza dell’istituto di Francoforte laddove all’art.130 viene perentoriamente sancito che «nè la BCE, nè le banche centrali nazionali, compresi tutti i loro membri coinvolti nelle decisioni adottate, possono cercare o prendere istruzioni da nessun’altra istituzione europea, da governi dell’Unione e da qualsiasi altro ente esterno». Un’analisi approfondita, anche in questo caso, mette a nudo contraddizioni che dipingono un quadro dove il confine tra conflitto d’interessi e grandi interessi di un’elite si confonde in modo inquietante.
Il Group of 30’s è un “club” composto dai più grandi banchieri del mondo. Tra i suoi membri spiccano i nomi dell’ex presidente della BCE Jean Claude Trichet e quello appena insediato Mario Draghi. Altri componenti del Gruppo sono Gerald Corrigan di Goldman Sachs, Jacob A. Frenkel di JPMorgan, Guillermo de la Dehesa Romero del Gruppo Santander, David Walker di Morgan Stanley, Lawrence Summers, ex segretario al Tesoro americano durante l’amministrazione Clinton e Thimoty Geithner, attuale segretario al Tesoro USA. E tra i suoi consociati figura anche quel Jacques de Laroisiere, chiamato a presiedere il sopra citato gruppo di esperti in Commissione con l’intento di risolvere la crisi, alla fine del 2008.
Fondato nel 1978 per «incidere sulla struttura presente e futura del sistema finanziario globale attraverso raccomandazioni dirette alle istituzioni, pubbliche o private, preposte a legiferare», il G30 è stato oggetto di diversi studi. «Il gruppo ha tutte le caratteristiche di una lobby», dichiara Eleni Tsingou, della Copenhagen Business School. «Si può dire che la sua attività si divida in due parti. Un lavoro pubblico che si manifesta attraverso la pubblicazione di report, e poi ci sono gli incontri confidenziali tra i suoi membri che, di fatto, lo connota come un club esclusivo». Secondo un’analisi del Corporate Europe Observatory (CEO) di Bruxelles «l’influenza del G30 pare sia alla base del fallimento dell’iniziativa Basel II, per la regolamentazione del sistema bancario nel 2008. Durante le negoziazioni il Gruppo ha sostenuto una delle più grandi lobbies del settore, il IIF (Institute of International Finance nda), nella promozione di un sistema di gestione del rischio, il VaR, value at risk, che è tra le cause scatenanti la crisi finanziaria». Tesi sostenuta anche dal New York Times che all’inizio del 2009 ha scritto che “il rischio che il sistema VaR ha calcolato non ha incluso quello più grande: il rischio di una catastrofe finanziaria”. Ovviamente i costi di questa catastrofe sono stati, e sono tuttora scaricati verso il basso, verso le fasce sociali che con le sue cause non hanno nulla a che fare. Noi giochiamo, se si vince vinciamo noi, se si perde, perdete voi. Kenneth Haar del CEO: «E’ pericoloso che il presidente della BCE sia nella condizione di essere influenzato dagli interessi del settore privato. Il disastro finanziario ha dimostrato in modo lampante che le banche non operano per il bene della società».

Dall’analisi di questi immensi centri d’influenza della politica europea, si evince come la Commissione srotoli il tappeto rosso dinanzi alle richieste, quando non veri diktat, avanzate da queste lobbies. A farne le spese, un tessuto sociale che da anni non viene più nutrito, con la disoccupazione a picchi record in tutto il continente, e gli Stati, ormai svuotati dei propri storici poteri.
E ciò appare in linea con l’opinione, tra gli altri, di Klaus Schwab, presidente del World Economic Forum – altro gruppo che riunisce uomini di vertice di grandi società multinazionali – che nel 1999 affermava in modo lapidario che “la sovranità statale è obsoleta”. O come, sempre nello stesso anno, in un articolo sul Newsweek, scriveva David Rockfeller, decano dei banchieri americani e fondatore della Commissione Trilaterale: “I governi devono essere sostituiti da qualcos’altro. Il business mi sembra il più adatto a prendere il loro posto”.


* Diego Del Priore è ricercatore presso l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).
Rivista Eurasia

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