LA
CRISI E L'UNIONE EUROPEA: CONFLITTO D'INTERESSI O SOLO INTERESSI?
“Da un lato stiamo riducendo il potere degli Stati e del
settore pubblico attraverso privatizzazioni e deregolamentazione …
Dall’altro stiamo trasferendo molti poteri dei governi nazionali ad
una struttura più moderna a livello europeo. L’unificazione
europea sta andando avanti, aiutando molto i nostri affari”
Daniel
Janssen, ex presidente della European Roundtable of Industrialists
(ERT), 2000
Conflitto
d’interessi. Questa espressione ha dominato il dibattito politico
italiano delle ultime due decadi, e probabilmente continuerà a
farlo. A prescindere dalla reazione «emotiva» alla fine del governo
Berlusconi che è divampata sulla stampa ed i media europei, è
sicuramente un altro, e più alto, il conflitto di interessi che
dovrebbe smuovere le nostre coscienze e farci riflettere sulla
situazione attuale. Una commistione istituzioni/interessi privati
economico-finanziari che, senza dubbio, incide in misura immensamente
maggiore sulla realtà politica ed economica del nostro Paese e, in
generale, degli Stati membri dell’Unione europea. Nell’ultimo
ventennio la politica europea ed il ruolo degli Stati ha subito dei
mutamenti che troppo spesso sono rimasti dietro le quinte e mai
oggetto, se non in aspetti marginali e conditi della sola retorica
«filo-europeista», di un dibattito aperto presso i cittadini
e le
opinioni pubbliche dei Paesi membri. Il
Trattato di Maastricht e, in ultimo, il Trattato di Lisbona, insieme
all’adozione della moneta unica europea e le altre tappe del
percorso UE, ha portato negli anni ad una progressiva erosione di
sovranità – politica, legislativa ed economica – dei singoli
Stati ed un accentramento, a livello di istituzioni europee, di
prerogative nazionali. Un trasferimento di sfere e poteri cui ci
siamo letteralmente affidati acriticamente, a parte qualche sparuta
voce all’interno dei vari contesti nazionali, e che abbiamo
accettato senza chiederci dove il «processo di integrazione» ci
stesse conducendo, con il risultato che il governo che esce vincitore
dalle elezioni politiche nazionali incide, ad oggi, in maniera assai
relativa sulla vita quotidiana dei cittadini, lasciando a istituzioni
sovranazionali, per lo più non elette da alcun cittadino europeo, la
disciplina di ambiti vitali. Un
trasferimento di poteri che ha indotto l’allora ministro
dell’Economia Tremonti, in una dichiarazione rilasciata alla
Reuters nel gennaio di quest’anno, ad affermare che “questo
processo porterà a un colossale trasferimento di sovranità… le
politiche di bilancio ora non sono più nelle mani dei governi
nazionali” . Nel momento
in cui ai popoli europei era stato consentito di dire la loro
sull’adozione o meno della Costituzione Europea, gli olandesi ed i
francesi hanno detto NO nelle rispettive sedi referendarie, nel 2005.
Il loro parere è stato elegantemente ignorato, facendo uscire la
Costituzione dalla porta e poi rientrare dalla finestra sotto forma
di Trattato, appunto, il Trattato di Lisbona. In
merito alle modalità con cui quest’ultimo è stato adottato, assai
significative sono le parole pronunciate da Valery Giscard d’Estaing,
presidente della Convenzione costituzionale ed ex presidente
francese: “Il Trattato di Lisbona è tale e quale alla Costituzione
bocciata (dai referendum francese ed olandese nda). Solo la forma è
stata modificata, proprio per evitare i referendum”.
Come ugualmente esplicative sono le dichiarazioni di Giuliano Amato,
rilasciate nel luglio del 2007, durante un suo intervento al Centro
per la Riforma Europea di Londra: “Fu deciso che il documento fosse
illeggibile, poiché così non sarebbe stato costituzionale (evitando
così i referendum, nda). Fosse
invece stato comprensibile, vi sarebbero state ragioni per sottoporlo
a referendum, perché avrebbe significato che c’era qualcosa di
nuovo (rispetto alla Costituzione bocciata nel 2005, nda)”. L’ex
Primo Ministro irlandese, Garret FitzGerald, dalle pagine dell’Irish
Times del 30 giugno 2007, fece notare come «i cambiamenti apportati
al testo costituzionale non hanno effetti pratici. Sono stati
semplicemente pensati affinchè i capi di governo potessero vendere
alle loro nazioni la via della ratifica parlamentare, anzichè
attraverso referendum». Come
a dire: ci interessa il vostro parere solo se coincide con il nostro.
Un episodio che oltre a porre prepotentemente sul piatto la questione
del “deficit democratico” del percorso di costruzione
dell’Europa, ci indirizza verso questioni di importanza cruciale e
che in questa sede ci interessa analizzare: quali interessi vengono
promossi a Bruxelles e come si sviluppa il processo decisionale
soprattutto presso la Commissione Europea, il nuovo «esecutivo» del
Vecchio continente. I
principi di legittimità e trasparenza, tanto invocati in passato,
vengono effettivamente rispettati? Si sta davvero costruendo
“l’Europa dei cittadini”?
Ci
sono diversi elementi che meritano di essere approfonditi, attori che
influenzano, con assoluto successo visti i risultati, gli indirizzi e
le politiche della Commissione. Il tracollo economico-finanziario,
anche frutto di un processo di deregolamentazione a ritmi forsennati
del settore, non ha fatto altro che acuire, con le sue drammatiche
conseguenze nella vita reale delle popolazioni europee, alcune delle
agghiaccianti contraddizioni in seno allo stesso establishment
dell’Unione.
Bruxelles:
il paradiso delle Lobbies. Quali interessi? Chi decide davvero?
E’ difficile fare una stima riguardo il numero esatto di
lobbies e gruppi di interesse che compongono la folta costellazione
che ha sede a Bruxelles. Un
numero approssimativo fissa intorno a quindicimila i lobbisti
professionisti. Oltre
il 70% lavora al servizio del grande business; il 20% di essi
rappresenta gli interessi di regioni, città ed altre istituzioni
internazionali, mentre solo il 10% promuove le istanze della società
civile, gruppi ambientalisti, associazioni di consumatori, sindacati,
ecc…
Come
organo che, di fatto, prende le decisioni e le applica, in qualità
di nuovo «esecutivo» dell’Unione, è nei corridoi della
Commissione Europea che si concentrano tutti gli sforzi dei gruppi di
interesse, sempre tenendo conto della sproporzione di cui sopra. Ma
andiamo ad analizzare chi sono queste lobbies che concretamente
determinano, su una nutrita gamma di sfere ed ambiti, la politica
europea.
Il
Transatlantic Business Dialogue (TABD).
Si
tratta senza dubbio della più ampia e strutturata alleanza tra
grandi corporations e Stati, forse la più potente lobby industriale
del mondo. Fondata
nel 1995, essa costituisce una piattaforma di dialogo costante tra la
Commissione Europea, i rappresentanti del governo nordamericano e i
leader del grande business “made in USA” ed europeo.
I suoi incontri «permettono scambi di visioni e discussioni intorno
alle scelte politiche tra i leader del business mondiale, i
rappresentanti del governo statunitense ed i commissari dell’UE, al
fine di sviluppare una stretta connessione tra il grande business ed
i governi per risolvere specifici problemi, promuovere la
cooperazione transatlantica e migliorare le opportunità di affari”.
Nella lista dei suoi membri compaiono veri giganti multinazionali
quali Ford, British American Tobacco, British Petroleum, BASF,
Deloitte, Hernst&Young, Deutsche Bank, Microsoft, Pfitzer,
Siemens, Thyssenkrupp, solo per citarne alcuni. Solo la Pfitzer, il
colosso farmaceutico, ha un fatturato che eguaglia quello dei 18
Stati africani più ricchi. Come documentato dal giornalista Paolo
Barnard, il TABD arriva al punto di presentare annualmente sul tavolo
della Commissione una lista di priorità, sulla cui attuazione la
Commissione si esprime dandosi letteralmente dei voti e manifestando
tutte le migliori intenzioni per soddisfare le loro richieste,
laddove la sua azione si fosse rivelata lacunosa. D’altronde,
sulla “incisività” dell’azione del TABD si è espresso, nel
1997, l’allora Commissario europeo al Commercio, affermando come
“il Trans Atlantic Business Dialogue è diventato un meccanismo
efficace per ancorare le politiche dei governi agli interessi dei
gruppi di affari.”
E sulla «apertura» della
Commissione verso tali raccomandazioni sono eloquenti le parole
espresse, sempre nel 1997, dall’allora vice presidente della
Commissione UE, nell’ambito di un intervento dinanzi ai
rappresentanti delle industrie chimiche: “Siate puntuali, e cioè
diteci per tempo se pensate che qualcosa debba essere fatto, o,
ancora meglio, se pensate che qualcosa debba essere stroncato sul
nascere.” La sua
influenza sui processi decisionali ha indotto diversi accademici a
definire il TABD come una nuova forma di governance, una commistione
poteri pubblici/privati di immense proporzioni: ”Il TABD – fa
notare Maria Green-Cowles, studiosa americana, esperta dell’argomento
– offusca la tradizionale distinzione tra governance pubblica e
privata, introducendone una in cui i businessmen negoziano di fatto
in forum quadrilaterali con i governi». Un’influenza, come
contenuto nel nome, che opera sulle due sponde dell’Atlantico. In
un summit del TABD che risale al 1998, nei primi anni di vita della
lobby, in cui essa peraltro portò a casa i più grandi successi,
l’allora
vice presidente degli Stati Uniti Al Gore dichiarò rivolgendosi ai
presenti: «So che andate orgogliosi del fatto che più del 50% delle
vostre raccomandazioni sono state tradotte in legge negli ultimi tre
anni (dalla nascita del TABD nda)».
Nel 2000, Pascal Lamy, attuale direttore generale del WTO (World
Trade Organization), allora
Commissario UE al Commercio nominato dal suo presidente Romano Prodi,
rassicurò gli industriali del TABD che la Commissione “stesse
facendo del suo meglio per mettere in pratica» le loro
raccomandazioni. In
quell’occasione Lamy proseguì elencando una serie di punti sui
quali il TABD avrebbe voluto posticipare, indebolire o abolire
completamente proposte o leggi esistenti, adottate dai governi, che
avevano lo scopo di mettere dei paletti al grande business. Punti
come l’adozione del principio di precauzione, sui quali Lamy
affermò come «si siano fatti dei grandi progressi». Sulla strada
della deregolamentazione, ovviamente, chini ai voleri del TABD.
L’introduzione di un nuovo paradigma di liberalizzazione del
mercato, in cui gli «elementi medi» vengono estromessi dal dialogo,
«che per estensione – fa notare Public Citizen – significa
estromettere i cittadini europei ed i consumatori, sindacati,
organizzazioni ambientaliste e dei lavoratori».
BusinessEurope.
E` composta da quarantuno federazioni nazionali di imprenditori
ed industriali di trentacinque Paesi «che lavorano insieme per la
crescita e la competitività in Europa». Proprio in nome della
competitivness, la competitivita, principio aureo del processo di
Lisbona, BE ha giustificato l’elaborazione di misure che sono state
fatte proprie dalla Commissione Europea, praticamente in modo
integrale. Misure che hanno un impatto economico e sociale drammatico
sulle popolazioni delle nazioni europee. Quando
il 25 marzo del 2011, il Consiglio Europeo ha approvato Europact, Il
Patto per l’Euro, un pacchetto di misure scritto dalla Commissione,
si nota come esse siano praticamente speculari rispetto alle
«raccomandazioni» di BE.
Tra di esse si legge, tra le altre, che «gli aumenti notevoli e
continuati del costo del lavoro (leggi stipendi nda) possono erodere
la competitività»; le pensioni devono essere riformate «allineando
il sistema pensionistico alla situazione demografica nazionale, per
esempio allineando l’età pensionistica con l’aspettativa di
vita»; ancora, si impone di «rivedere le strutture decisionali sui
salari e dove necessario il grado di centralizzazione di tale
contrattazione»; si prevede l’introduzione di leggi interne «di
natura sufficientemente severa e duratura», che i singoli Stati
dovranno adottare al fine di porre, come usato nel linguaggio di BE,
«barriere al deficit pubblico».
Nell’attuazione di tali misure, alla Commissione spetta il ruolo di
arbitro supremo, con il compito di monitorarne l’obbediente
applicazione da parte dei governi nazionali. Continua il processo di
espoliazione delle prerogative statali, dei governi che noi cittadini
eleggiamo. Quindi, maggiore produttività accompagnata dalla
riduzione degli stipendi. Ancora,
«promuovere flessibilità e sicurezza dell’impiego», “come dire
di aumentare le vendite di auto e migliorare la respirabilità
dell’aria”, fa notare Barnard.
Ciò che risalta agli occhi, oltre, naturalmente, alle conseguenze
sulla vita reale di tali provvedimenti, è l’assoluta
subordinazione della più importante tra le istituzioni politiche del
nostro continente a poteri economici e finanziari i cui interessi
sono di segno opposto rispetto alle istanze dei cittadini europei.
BusinessEurope è stato l’interlocutore principale della
Commissione quando essa stava lavorando sul progetto «Global
Europe», un nuovo quadro di iniziative in materia di politiche
commerciali europee che ruota attorno alla conclusione di accordi
regionali e bilaterali di libero scambio con Paesi terzi. Lanciato
nel 2006 dall’allora Commissario al Commercio Peter Mandelson,
Global Europe incarna, in particolare nella sua agenda esterna, il
meglio del mantra neoliberista, spingendo verso lo smantellamento di
«barriere», quali possono essere regolamentazioni in ambito sociale
ed ambientale.
Un piano, come dichiarato il 4 ottobre del 2006 da Celine Charveriat
di Oxfam International, “ideato non per favorire la competitività,
ma per esportare disuguaglianza e povertà”.
Il 26 giugno del
2006, la Commissione inviò una bozza del testo a BE, estromettendo
dalla dialettica ONG e sindacati.
A molti incontri intorno a Global Europe, BE fece da tramite con
altre importanti lobbies, come la European Services Forum (ESF),
fondata dall’ex
Commissario al Commercio dell’UE Leon Brittan, che al momento è un
lobbista professionista per conto dell’industria dei servizi
finanziari di Londra.
Il 28 ottobre 2008, BE ha organizzato una conferenza, “Going
Global: the Way Forward”, al fine di valutare i primi due anni di
Global Europe. Dove? L’evento si svolse nell’edificio Charlemagne
di Bruxelles: la sede della DG Trade, la Direzione Generale del
Commercio della Commissione UE.
Philippe
de Buck di BusinessEurope ha candidamente dichiarato: «Quando la
strategia è stata lanciata, ho chiesto al Commissario Mandelson di
agire più spesso nelle vesti di Ambasciatore UE per l’Accesso al
Mercato nel mondo. Penso gli piacesse questo incarico. O almeno ha
preso questo nuovo incarico molto seriamente».
Tra
i potenti gruppi di interesse che rappresentano il mondo del grande
business non si può non considerare il peso che la European
Roundtable of Industrialists (ERT)
ha tuttora sull’adozione di decisioni a livello di governo europeo.
L’ERT raccoglie circa quarantacinque dirigenti delle maggiori
multinazionali tra cui Siemens, BMW, Total, Renault, BASF,
Thyssenkrupp e le italiane Fiat, Eni, Cir e Telecom. La sua influenza
sulla Commissione si è rivelata assai efficace in più di
un’occasione. Sempre in
nome della “competitiveness”, la liberalizzazione dei servizi,
auspicata fortemente dalla ERT, “è stata intrapresa dall’UE,
minacciando il mercato del lavoro in diversi Stati membri”, si
sottolinea in un rapporto del Corporate Europe Observatory del
gennaio di quest’anno. “Le politiche sociali sono state
accantonate - prosegue il rapporto – ed il processo decisionale
accelerato e privato di un aperto dibattito. Con modalità che sono
al servizio del grande business, lasciando inascoltate altre voci”.
I
Gruppi di Esperti.
La
formazione di «expert groups» – o «High Level Groups», quando
composti da Commissari UE, europarlamentari o alti dirigenti –
costituiscono forse il metodo di consulenza più frequentemente
utilizzato dalla Commissione Europea. Ciò che esce da tali gruppi
rappresenta spesso la struttura portante della legislazione fatta
propria dalla Commissione. Anche qui l’influenza del grande
business è schiacciante. Nel
2006-2007 venne costituito un High Level Group sulla Competitività,
Energia ed Ambiente. Vennero invitati a partecipare anche membri del
Parlamento Europeo, i quali rifiutarono di prendervi parte in quanto
il gruppo, a parer loro, «minava l’indipendenza delle Istituzioni
europee». Come confutare
l’argomentazione alla base del loro diniego? Il Gruppo, infatti,
era composto da rappresentanti di otto Stati membri, un sindacato,
due organizzazioni ambientaliste e ben quattordici delegati di
aziende multinazionali del calibro della British Petroleum, Siemens e
Areva. C’è
poi il caso del «Gruppo Larosiere», per la Regolamentazione
finanziaria a livello europeo, che prende il nome dal suo
coordinatore Jacques de Larosiere, ex consulente della banca francese
BNP e co-direttore della lobby operante nel settore finanziario
EuroFi. Costituito
alla fine del 2008 per iniziativa dei capi di Stato e di governo e
dal presidente della Commissione Barroso, il ristretto consesso di
esperti fu chiamato a suggerire ricette per uscire dalla crisi.
Cinque dei suoi otto membri lavoravano per il settore finanziario
privato, in banche di investimento implicate nella crisi, mentre gli
altri tre comprendevano l’ex capo dell’Authority inglese sui
Servizi Finanziari, la stessa che, in sostanza, aveva il compito di
prevenire la crisi, un ardente sostenitore della «deregolamentazione»
del settore ed un
dirigente di una banca pubblica. Il report prodotto dal gruppo, dove
non si menzionava, se non marginalmente, la necessità di
regolamentare il settore, venne pienamente sostenuto dalla
Commissione come antidoto alla crisi finanziaria globale. Siamo
alla malattia chiamata a guarire il malato. In uno studio
approfondito sui gruppi di esperti, svolta da ALTER-EU si conclude
come «la Commissione cerchi la sua legittimità di governo non dalla
società civile europea, ma esclusivamente dal settore finanziario
privato».
BCE.
Davvero indipendente?
Il magma di commistioni, quando non vere e proprie assimilazioni,
tra grandi interessi privati e processo decisionale, non risparmia la
Banca Centrale Europea. Il Trattato di Lisbona consacra
l’indipendenza dell’istituto di Francoforte laddove all’art.130
viene perentoriamente sancito che «nè la BCE, nè le banche
centrali nazionali, compresi tutti i loro membri coinvolti nelle
decisioni adottate, possono cercare o prendere istruzioni da
nessun’altra istituzione europea, da governi dell’Unione e da
qualsiasi altro ente esterno». Un’analisi approfondita, anche in
questo caso, mette a nudo contraddizioni che dipingono un quadro dove
il confine tra conflitto d’interessi e grandi interessi di un’elite
si confonde in modo inquietante.
Il
Group of 30’s è un “club” composto dai più grandi banchieri
del mondo. Tra
i suoi membri spiccano i nomi dell’ex presidente della BCE Jean
Claude Trichet e quello appena insediato Mario Draghi.
Altri componenti del Gruppo sono Gerald Corrigan di Goldman Sachs,
Jacob A. Frenkel di JPMorgan, Guillermo de la Dehesa Romero del
Gruppo Santander, David Walker di Morgan Stanley, Lawrence Summers,
ex segretario al Tesoro americano durante l’amministrazione Clinton
e Thimoty Geithner, attuale segretario al Tesoro USA. E tra i suoi
consociati figura anche quel Jacques de Laroisiere, chiamato a
presiedere il sopra citato gruppo di esperti in Commissione con
l’intento di risolvere la crisi, alla fine del 2008.
Fondato
nel 1978 per «incidere sulla struttura presente e futura del sistema
finanziario globale attraverso raccomandazioni dirette alle
istituzioni, pubbliche o private, preposte a legiferare», il G30 è
stato oggetto di diversi studi. «Il gruppo ha tutte le
caratteristiche di una lobby», dichiara Eleni Tsingou, della
Copenhagen Business School. «Si può dire che la sua attività si
divida in due parti. Un lavoro pubblico che si manifesta attraverso
la pubblicazione di report, e poi ci sono gli incontri confidenziali
tra i suoi membri che, di fatto, lo connota come un club esclusivo».
Secondo un’analisi del Corporate Europe Observatory (CEO) di
Bruxelles «l’influenza del G30 pare sia alla base del fallimento
dell’iniziativa Basel II, per la regolamentazione del sistema
bancario nel 2008. Durante le negoziazioni il Gruppo ha sostenuto una
delle più grandi lobbies del settore, il IIF (Institute of
International Finance nda), nella promozione di un sistema di
gestione del rischio, il VaR, value at risk, che è tra le cause
scatenanti la crisi finanziaria». Tesi sostenuta anche dal New York
Times che all’inizio del 2009 ha scritto che “il rischio che il
sistema VaR ha calcolato non ha incluso quello più grande: il
rischio di una catastrofe finanziaria”. Ovviamente
i costi di questa catastrofe sono stati, e sono tuttora scaricati
verso il basso, verso le fasce sociali che con le sue cause non hanno
nulla a che fare. Noi
giochiamo, se si vince vinciamo noi, se si perde, perdete voi.
Kenneth Haar del CEO: «E’ pericoloso che il presidente della BCE
sia nella condizione di essere influenzato dagli interessi del
settore privato. Il disastro finanziario ha dimostrato in modo
lampante che le banche non operano per il bene della società».
Dall’analisi di questi immensi centri d’influenza della
politica europea, si evince come la Commissione srotoli il tappeto
rosso dinanzi alle richieste, quando non veri diktat, avanzate da
queste lobbies. A farne le spese, un tessuto sociale che da anni non
viene più nutrito, con la disoccupazione a picchi record in tutto il
continente, e gli Stati, ormai svuotati dei propri storici poteri. E
ciò appare in linea con l’opinione, tra gli altri, di Klaus
Schwab, presidente del World Economic Forum – altro gruppo che
riunisce uomini di vertice di grandi società multinazionali – che
nel 1999 affermava in modo lapidario che “la sovranità statale è
obsoleta”. O come, sempre nello stesso anno, in un articolo sul
Newsweek, scriveva David Rockfeller, decano dei banchieri americani e
fondatore della Commissione Trilaterale: “I governi devono essere
sostituiti da qualcos’altro. Il business mi sembra il più adatto a
prendere il loro posto”.
*
Diego Del Priore è ricercatore presso l’Istituto di Alti Studi in
Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG). Rivista Eurasia
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lunedì 5 dicembre 2011
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