giovedì 30 gennaio 2014

Consiglio di non perdersi L'IMBROGLIONE FIORENTINO, GLI SFRUTTATORI SVEDESI E GLI STROZZINI ITALIANI di Leonardo Mazzei e sotto riporto l'art da Vincitori e vinti sul "caso Electrolux" SI CHIAMA SVALUTAZIONE SALARIALE, BELLEZZA.
Barbara
Il Pil torna a salire ma la gente sta peggio

di Salvo Ardizzone
Sembra che si sia scoperta l’acqua calda; dinanzi all’evidenza, i relatori d’un convegno internazionale tenuto presso il Palazzo di Vetro dell’Onu hanno potuto gridare ai quattro venti, e senza tema di smentite, ciò che fino a poco tempo fa era liquidata come una sciocchezza: anche se in molti paesi il Pil sale, come negli Stati Uniti, la gente sta peggio.
Per anni è stato predicato come verbo assoluto che non bisognava intervenire sull’economia, che il mercato si sarebbe autoregolato e che qualunque intervento avrebbe provocato disastri. Peccato che i disastri li abbia combinati il mercato, abbandonato in balia di avidi speculatori che, per sovrappiù, hanno lasciato la bolletta da pagare alla collettività.
Come molti relatori hanno sottolineato, dal premio Nobel Joe Stiglitz al nostro Fabrizio Barca (ex Banca d’Italia ed ex ministro), il fatto che la ricchezza cresca, da solo non basta affatto a garantire crescita, sviluppo, diffusione del benessere e diminuzione dell’area del disagio e della povertà; è il come la ricchezza è distribuita che conta.

Senza appesantire il ragionamento con grafici e statistiche, diciamo a mo’ d’esempio che nel periodo fra gli anni 50’ e 70’ (anni caratterizzati da continuo sviluppo, con l’unica parentesi della crisi petrolifera del 73) la distribuzione della ricchezza si disegnava come una piramide con una base assai vasta che saliva con gradualità. Per intenderci, le diseguaglianze (che pure c’erano, eccome!) erano meno marcate e la differenza fra i redditi alti e quelli bassi più contenuta. Ciò significava che un’area sempre più vasta della popolazione veniva inclusa nella sfera del benessere, con un marcato effetto di ascensore sociale ed economico che coinvolgeva moltissimi soggetti.
Col passare degli anni, e per effetto di politiche economiche improntate sempre più al liberismo (ovviamente parliamo in generale, perché a limitarci all’Italia, molto dovremmo dire su certo capitalismo parassita che ha lucrato rendite di posizione e sussidi comprati dalla politica), la piramide del benessere si è progressivamente ridisegnata, tendendo sempre più ad un effetto “cuspide” che ha ristretto la quantità di ricchezza a disposizione della base per spostarla, in quantità sempre maggiore, presso un numero sempre minore di soggetti; l’area della popolazione inclusa nella sfera del benessere è diminuita (e tende a diminuire sempre più rapidamente) e l’ascensore sociale ed economico si è bloccato (in parole povere i ricchi divengono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri).
Ciò è accaduto per l’effetto di progressivo un cambiamento delle attività economiche, che da un’economia reale, ovvero basata sulla produzione di beni e servizi, si è spostata verso un’economia finanziaria, basata sui guadagni derivanti dall’impiego di capitali. E la stessa economia reale ha finito per essere contagiata da questa ottica, con imprese industriale costrette a fare utili e programmi sull’arco di tre mesi, invece che nel corretto orizzonte degli investimenti.
Il fatto è che questa tendenza, oltre che generare ed esasperare diseguaglianze e squilibri sempre più marcati, danneggia e tanto l’economia nel suo insieme a prescindere dal Pil, in quanto occorre tener presente che mentre i redditi bassi e medi per lo più generati da una correlata produzione di ricchezza tendono a trasformarsi in consumi, i redditi alti (e più alti sono più è marcata la tendenza) vengono destinati in gran parte all’accumulo e poi all’economia finanziaria, sfuggendo da quella reale. In tal modo diminuiscono i consumi e gli investimenti vengono distolti dalla produzione di beni e servizi per essere destinati a impieghi finanziari; il processo genera un circolo perverso che deprime l’economia stessa fino a condurla in recessione, con tutte le conseguenze sulla società.
È la cosiddetta finanziarizzazione dell’economia, che tanti danni ha fatto e ancora minaccia di farne senza un reciso cambiamento di rotta nelle politiche economiche, capace di disinnescare sia il pericolo povertà, che minaccia anche i Paesi più avanzati con l’esplodere dell’area di disagio sociale; sia la distruzione dei comparti produttivi proprio nei paesi industrializzati (e proprio come stiamo vedendo in vaste parti del nostro), dove la quota di capitali investiti in attività reali decresce vertiginosamente.
A conclusione di questo ragionamento, giova ricordare alcune cose; primo: i capitali non hanno patria, quando hanno sfruttato il paese dove sono stati generati, possono emigrare facilmente in cerca di altri pascoli dove ingrassare; le attività produttive, una volta distrutte, impiegano molto tempo per ricostituirsi (se mai lo fanno) e con altissimi costi sociali.
Secondo: con buona pace di certi incorreggibili soloni, il mercato non si è mai autoregolato; esso, se lasciato a se stesso, diviene una bestia avida e ottusa che, con l’unico obiettivo di massimizzare il profitto a qualunque costo, finisce per distruggersi e con sé l’economia che lo ospita, come troppi esempi attuali ci ricordano.
Terzo: uno sviluppo sostenibile e prolungato non può essere raggiunto e mantenuto ignorando le disparità e le diseguaglianze estreme, come dice Stiglitz. Oltre che un doveroso dettato etico, è nell’interesse dell’efficienza di lungo periodo dell’economia e della società.
Il Faro sul mondo

SI CHIAMA SVALUTAZIONE SALARIALE, BELLEZZA.
Gli italiani hanno la brutta abitudine di svegliarsi tardi e, quando lo fanno, offrono la sensazione che siano caduti dal pero.
Non capisco tutta questo discutere  per il caso Electrolux che, come ben saprete, ha elaborato una proposta per  mantenere in vita la produzione negli stabilimenti italiani.

da Leggo

«Il problema è che i prodotti italiani risentono di costi produttivi superiori a quelli dei concorrenti». Un’analisi che coincide con quella di Electrolux, che ha lanciato l’ultimatum ai dipendenti dei 4 stabilimenti friulani: gli stipendi italiani sono troppo alti, o si adeguano a quelli di altri Paesi o si tagliano i posti di lavoro.
 E’ la prospettiva delineata, secondo i sindacati, dall’azienda svedese nell’incontro di ieri a Mestre: gli stipendi devono scendere da 1.400 euro al mese, a 700-800 euro. Servirebbe anche una riduzione dell’80% dei 2.700 euro di premio aziendale, la riduzione delle ore lavorate a 6, il blocco dei pagamenti delle festività, il taglio del 50% di pause e permessi sindacali e lo stop agli scatti di anzianità.
 Ma la spending review potrebbe non bastare: per mantenere la produzione nel Paese, servirebbe almeno una chiusura. La vittima predestinata è lo stabilimento di Porcia (Pordenone), 1.160 persone, dove non è previsto alcun piano industriale: le lavatrici prodotte lì costano, a pezzo, 30euro di troppo, e sono vittima della concorrenza dei marchi Far Est, Samsung ed Lg. Per gli altri tre stabilimenti italiani, ci sarebbero dei tagli lineari ma vi sarebbero come contropartita - se il piano passasse - investimenti di 40 milioni di euro per Solaro, 28 milioni per Forlì e 22 milioni per Susegana.

E questa è la cronaca di questi giorni che racconta una storia nota, ossia che in Italia è assai difficile fare impresa e mantenere competitivi sui mercati internazionali i prodotti che si producono in Italia.
Le cause sono sempre le stesse e sono altrettanto note: eccesso di tassazione, eccessiva burocrazia, tasso di cambio non rappresentativo della struttura economica italiana che rende meno competitivi i prodotti italiani, e chi più ne ha  ne metta.
La cronaca di un paio d'anni fa, precisamente dell'agosto del 2011, invece, raccontava della letterina della BCE all'allora governo italiano, presieduto da Silvio Berlusconi.
Giusto per ricordarvelo, si da il caso che, al secondo punto delle raccomandazioni prescritte in quella lettera, era scritto:

C'é anche l'esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L'accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione,

Quindi, non si capisce proprio la sorpresa che possa suscitare questo caso, essendo stato descritto nei minimi dettagli e anticipato già dall'agosto 2011.
E cosa è accaduto in questi due anni? È accaduto che la disoccupazione è aumentata e ora, per la semplice legge della domanda e dell'offerta, essendoci più manodopera disponibile ad essere occupata (offerta), chi è in cerca di  lavoro è destinato ad accettarlo a condizioni meno favorevoli.  Quindi vengono compressi i salari, con la speranza che questo sacrificio possa contribuire a far guadagnare posizioni di competitività alle imprese italiane, altrimenti prossime all'estinzione.

Per dirla in maniera più semplice, lo stato obeso e avvezzo a nutrirsi con dosi sempre maggiori di burocrazia e quindi di ricchezza sottratta agli italiani, anziché mettersi a dieta, preferisce scaricare sui lavoratori le proprie colpe, che si traducono in salari più bassi  che tendono a compensare  anche la perdita di competitività determinata da un tasso di cambio sfavorevole rispetto ai competitors stranieri.
Il tutto, ovviamente, si consuma sotto lo sguardo vigile dei sindacati e dei partiti che mentono spudoratamente ai lavoratori sul futuro che li attende, poiché, permanendo le condizioni attuali, saranno destinati a diventare parte significativa di un enorme bacino di manodopera a basso costo.

Ciò che sto affermando è (o meglio dovrebbe essere) cosa nota. Tant'è vero che lo stesso Mario Monti, qualche mese fa, intervistato da una emittente televisiva americanasi lodava per aver distrutto la domanda internaal fine di riequilibrare i passivi della bilancia commerciale italiana. Tasse più alte, non compensate da politiche economiche espansive, sottraggono reddito spendibile alle famiglie. Un minor reddito fa crollare i consumi, quindi la domanda interna. Una minore domanda interna fa esplodere la  disoccupazione, che aggrava la recessione, che contrae le entrate dello stato. Quindi, si generano buchi nel bilancio dello stato che devono essere compensati con nuovo gettito fiscale. E  si riparte dall'inizio.

Capisco che in Italia ci sia l'esigenza di riempire le pagine dei giornali sussidiati o quella di offrire dibattiti televisivi privi di senso,  dove  siedono ritualmente  politici e sindacalisti (il più delle volte analfabeti economici, o,  nel migliore dei casi, in malafede)   che, con la solita retorica vuota di contenuti, si esercitano a farvi la morale o a suggerirvi come potete arrivare alla fine del mese, senza proporre alcuna soluzione seria e fattibile. Ma di questa crisi, caro lettore,   è stato già scritto più o meno tutto. E questo è solo una parte dell'epilogo, che è stato anch'esso scritto.
Urlare quando la realtà presenta il conto è assai poco utile. E accrescere il risentimento e le avversità verso coloro che hanno scritto il vostro gramo futuro, costituisce solo una magra consolazione che non sarà utile  a salvarvi il culo. Il cui culo, loro,  non subendo alcuna svalutazione salariale, ce l'hanno già ben riparato. Voi no, invece.

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