Nei primi decenni del Novecento l’ingegnere americano Taylor promuove la razionalizzazione scientifica dell’organizzazione del lavoro che, negli anni Trenta, il produttore di automobili Henry Ford, con la sua politica economica e industriale, perfeziona e radicalizza, favorendo lo sviluppo industriale e capitalistico statunitense. Dalla fabbrica lo sviluppo taylorista investe l’intera società americana e diventa un modo di fare e pensare la vita: l’americanismo. Già Gramsci (1891 – 1937), nel Quaderno 22 dal carcere, definiva l’americanismo novecentesco una rivoluzione passiva, la cui l’egemonia non si limitava al controllo produttivo in fabbrica ma tendeva a occupare la società civile a tutti i livelli, morale, culturale e politico. L’intellettuale comunista critica l’intento capitalista di razionalizzare e di controllare capillarmente non solo il lavoro, ma perfino la coscienza e la vita privata del lavoratore: un produttore da ridurre a “gorilla ammaestrato”, privato di coscienza e pensiero. Il passaggio a questa fase egemonica – avverte Gramsci – avrà l’effetto di formare un “nuovo tipo umano”, condizionato al punto da fargli esprimere una diversa sensibilità, una nuova mentalità e un altro senso comune. La classe dominante, estendendo il potere della fabbrica alla società, organizzava anche l’imponente “struttura ideologica” vòlta a controllare le coscienze morali dei singoli tramite la stampa, le case editrici, i giornali, le riviste, le biblioteche, le scuole, i circoli, i clubs, ecc., tutto ciò che, direttamente o indirettamente, condizionava l’opinione pubblica. L’americanismo-fordismo dunque consisteva nell’imperniare tutta la vita del paese e tutto il sistema di accumulazione del capitale finanziario sulla produzione industriale. “L’egemonia nasce dalla fabbrica e non ha bisogno per esercitarsi che di una quantità minima di intermediari professionali della politica e dell’ideologia” (Q. 22, 2146). Oggi l’egemonia nasce dal capitale finanziario e sembra poter fare a meno di quantità anche minime di intermediari ma, sempre più spesso, mira a occupare direttamente le istituzioni politiche con i suoi impiegati e consulenti. Gramsci, pur definendolo razionale e progressivo, sostiene che l’americanismo-fordismo è destinato a fallire, perché non sarebbe in grado di superare le contraddizioni sociali della crisi organica del capitalismo. Questa sua riflessione, non confermata dalla realtà storica successiva, ci consente però di capire l’americanismo dei nostri tempi in cui, non l’organizzazione industriale estesa alla società, ma i mercati finanziari sorretti dal potere massmediatico colonizzano le coscienze. Il nesso tra potere economico, culturale e politico costituisce un elemento di grande attualità per interpretare anche la società del nostro tempo, assalita e affatturata dai mass media.
Gramsci, riflettendo sull’americanismo non solo in termini economici ma geoculturali e geopolitici, ci offre la chiave di lettura del permanere dell’americanismo oltre l’epoca del fordismo. Ai nostri giorni l’americanismo diffonde e impone uno stile di vita improntato al mito della velocità, della corsa folle e insensata, e del consumo ossessivo non solo delle risorse, ma anche dell’esistenza. La fretta e la velocità, infatti, divorando lo spazio e sconvolgendo il tempo biologico, accelerano il ritmo e il logorìo anticipato dei rapporti umani, impediscono di cogliere il senso delle cose, vanificano e banalizzano la fruizione della natura e dell’arte. Il produttivismo e il consumo forsennato ci precludono il vivere sereno, ci volgarizzano, come aveva ben intuito un quasi contemporaneo di Gramsci: «L’americanismo è la peste che avanza volgarizzando, rimbecillendo, imbestialendo il mondo, avvilendo e distruggendo alte, luminose, gloriose civiltà millenarie». (“Aforisma a buon mercato” Ardengo Soffici (1879- 1964). L’influenza e il condizionamento di questa cultura d’oltreoceano, avvertiti come un flagello negli anni Venti e Trenta da intellettuali e artisti di diversa estrazione ideale e culturale, si ripresentano nella seconda metà del secolo scorso. A partire dal dopoguerra la prepotente siringa del piano Marshall, iniettando non solo soldi ma anche modi di vivere e di pensare, è stata determinante nel cambiare antropologicamente i popoli occidentali tutti, e in particolare quello italiano, a cui i vincitori hanno imposto l’american way come l’unico civilmente valido, attraente e moderno, tramite soprattutto televisioni e cinema. Così come nel secolo scorso la cultura ufficiale estendeva, nell’egemonia del capitale produttivo, l’idea di produttività fordista alla società civile, oggi dilata, nel dominio globale del capitale finanziario, l’idea del “mercato” a tutte le forme di esistenza; spinge per integrare definitivamente l’amministrazione, la produzione e le menti nella dimensione liberista e per appiattire, tramite i massa-media, le coscienze su un modo particolare di rapportarsi alla realtà, al lavoro, ai problemi sociali, alla fede religiosa, al guadagno.
Da vent’anni a questa parte la classe politica ed economica sub-dominante ci impone di competere, di concorrere, di conformare la nostra dimensione materiale e culturale alle esigenze liberiste imposte dai mercati, di “lasciare a tutti la libertà di sopprimere la nostra” – così A. Soffici definiva il liberalismo -. Gli Italiani dunque dovrebbero adeguarsi non soltanto ai modelli economici e giuridici eurounionisti, ma omologarsi e rassegnarsi, in tutto e per tutto, all’americanizzazione dell’Occidente. Adeguarsi ossessivamente all’ideologia del mercato globale imitando scimmiescamente lo spirito angloamericano, le logiche del profitto, la concorrenza e la competizione, illudendosi di appagare i mercati e i rapaci investitori stranieri, significa stravolgere e snaturare i valori comunitari che storicamente abbiamo ereditato e che simbolicamente avremmo il dovere di trasmettere. A una società ad economia liberista, dove al profitto segue immediatamente l’uso e il consumo, appare assurda ed estranea l’idea di un popolo istintivamente risparmiatore, che regge la sua storia su una tradizione di economia reale e di capitale sociale, piano sul quale dobbiamo fondare la nostra rinascita, e non sulla pura finanza speculativa, livello su cui saremo sempre perdenti e dominati.
Perciò dovremmo chiederci se la logica mercatista è connaturata al nostro modo di essere, se si concilia con i nostri schemi di interpretare la realtà, con l’insieme delle nostre pratiche quotidiane, con le nostre varietà interculturali. Noi apparteniamo a una cultura che, per quanto il gruppo politico sub-dominante pretenda di trasformare in apolide e cosmopolita, rimane provinciale nel senso più umano e positivo del termine, perché da secoli la dimensione provinciale garantisce la percezione del senso del limite, della misura, dell’equilibrio e l’orrore per la hybris, per l’empietà.
“Il piacere della convivialità, dell'otium contemplativo e della bellezza, la ricerca dell'equilibrio fra gli estremi, che confligge frontalmente con l'inclinazione 'oceanica' per l'informe e per la violazione di ogni limite, sono doni elargiti nella stessa misura a Napoli come a Tunisi o a Giaffa”. (G. Marano, Per l’indipendenza della grande patria mediterranea).
La nostra cultura quotidiana, incline al godimento qualitativo del vivere, diverge da quella americanista iperattiva e tesa alle quantità mai bastevoli. Le relazioni sociali, l’ospitalità, i comportamenti che oscillano tra l’onore e la vergogna, esprimono una sensibilità contadina, una visione estranea alle logiche delle megalopoli indistinte e uniformi, degli spazi vasti e indifferenziati, degli scali attraversati da folle di eterni nomadi che non “popolano” mai nessuna terra e ignorano l’esistenza di “… popolazioni che si conoscono, si incontrano e – fecondamente – si scontrano da millenni. Genti che nelle varianti di un unico idioma fondamentale esprimono l’identica gioia di vivere fuori dai dettami del profitto e dell’utile” (G.Marano, La grande patria mediterranea). Siamo chiamati a ripensare, a ricostruire, a far rinascere l’Italia, tenendo conto delle sue peculiarità e della dimensione ideale che la caratterizza, a cui dare forza per tracciare un’identità in armonia con la dimensione materiale – la nostra economia, i nostri prodotti, le nostre creazioni –. Ci piace credere che l’Italia, in cui valori irrinunciabili precedono il perseguimento dell’accumulo e della rendita, possa rappresentare un bastione a difesa dalla degenerazione turbocapitalista. “…si tratta di uno scontro, quasi antropologico, tra una cultura universale indifferenziata e tutto ciò che, in qualsiasi contesto, conserva qualcosa di irriducibile” (Jean Baudrillard)
di Luciano Del Vecchio - 18/08/2014
Fonte: Il giornale del Ribelle
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