venerdì 13 giugno 2014

Uno dei temi sui quali ci si continua a confrontare, almeno tra chi ha delle posizioni critiche nei confronti della nostra modernità, è quello relativo alla (poca) importanza e alla incidenza degli stati nazionali nel momento in cui la globalizzazione economica e finanziaria ha soppiantato, da decenni e in modo ancora maggiore negli ultimissimi anni, le possibilità offerte da quelle che una volta erano considerate le peculiarità di ogni Stato. E, in altre parole, la possibilità di manovra, in termini politici ed economici, che ogni singolo governo continua ad avere. 

Queste possibilità di manovra, come sappiamo e come ormai si dovrebbe aver interiorizzato, sono assai modeste. Se non nulle. 

Gli stati nazionali non contano più nulla, si sente ripetere spesso negli ambienti ostili al modello attuale. E soprattutto, per quanto riguarda invece gli apologeti del nostro modello di sviluppo che non smettono un solo momento di rimarcare la cosa, non devono mettere alcun paletto o restrizione alla libera circolazione dei capitali e delle merci.  

Malgrado quest’ultimo sia il leit motiv dei guru della crescita infinita e della finanza, e malgrado si lasci passare questo concetto senza offrire la benché minima possibilità di discussione sull’argomento - la globalizzazione è un dato di fatto e non si può tornare indietro, sono le parole d’ordine - le cose stanno diversamente. E, per la precisione, l’inganno risiede in una duplice orchestrazione illusionistica. 

Vediamo. È ovviamente vero che dal Washington Consensus in poi sia stata messa in atto una strategia per fare in modo che la crescita, il commercio e da ultimo la finanza - tutti elementi per aumentare i profitti nella più classica matrice liberista - potessero andare avanti a tappe forzate, anche con l’utilizzo delle armi, verso lo smantellamento sistematico degli stati nazione che ne potevano impedire, almeno in parte, un tempo, la colonizzazione planetaria. Che si sia trattato di annientare la sovranità politica e monetaria oppure le specificità culturali di ogni singolo Stato, il tutto è andato avanti in modo inesorabile. Al commercio, al denaro, alla speculazione, non dovevano essere posti confini di tipo territoriale: i denari, i capitali, le merci, dovevano poter andare là dove era più utile andare, là dove era più proficuo operare. A profitto dei pochi che ne potevano e ne possono tirare i fili. Le 10 direttive contenute appunto nel documento del Washington Consensus, termini coniati nel 1989 dall’economista John Williamson per descrivere i passaggi che dovevano essere destinati ai paesi in via di sviluppo erano già molto chiare, e ruotavano tutte attorno ai concetti di liberalizzazione del commercio e degli investimenti (libera impresa ovunque e senza freni) di privatizzazione delle aziende statali (spostamento della ricchezza e dei beni dagli Stati, cioè dalla comunità dei cittadini, a pochi privati) e di deregulation (cioè eliminazione di qualsiasi legge che potesse limitare in qualche modo la competitività). Quasi superfluo rammentare che tali direttive dovevano essere promosse da organi e istituzioni che potessero avere voce in capitolo, o che potessero arrivare, con ogni mezzo, ad averne: parliamo del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e, ovviamente, del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d’America. Ed è troppo semplice rammentare che, proprio sul finire degli anni Ottanta, la potenza e l’influenza di tali istituzioni, essendo al massimo della capacità di fuoco, non ebbe difficoltà a imporsi.  

Di lì a breve entrò - meglio, si fece entrare - nel dibattito pubblico un ulteriore termine, cioè “governance”, che in parole molto semplici istituzionalizzava una serie di norme e di buone condotte politiche ed economiche, ovviamente demandate a pochi centri di potere (dalle nostre parti Unione Europea e Banca Centrale Europea, istituite senza alcuna consultazione popolare) che di fatto andavano a soppiantare del tutto le possibilità di scelta dei singoli Stati proprio negli ambiti che prima di allora li potevano far considerare ancora, in qualche modo sovrani. 

Questa è storia del nostro tempo, e solo chi ignora, o vuole continuare a ignorare, lo stato delle cose, continua imperterrito a non capire.  

Ma, dicevamo, il tema della perdita di rilevanza degli Stati nazionali è oggetto attualmente di una seconda ed errata messa a fuoco anche da parte di chi, e non sono pochi, si pone in posizione critica nei confronti dello stato delle cose.  

Partiamo dalla fine: non è affatto vero che i centri di potere dei quali abbiamo detto abbiano la assoluta volontà di rendere praticamente nulle le competenze dei singoli Stati. Non si vuole tendere, in sostanza, alla totale marginalizzazione o, peggio, alla dissoluzione completa di ogni singolo Stato e di ogni singolo governo. La realtà è differente. Più sottile, se vogliamo. E ovviamente di natura criminosa e in linea con la originaria volontà di dominare economicamente, finanziariamente e politicamente la vita di ogni nazione e di ogni cittadino: gli Stati nazionali, i governi locali, alla speculazione, agli apologeti della globalizzazione, servono eccome. Devono necessariamente essere mantenuti in vita e anche con una sorta di (cioè finta) legittimazione popolare interna a ogni singolo caso. 

Il motivo è semplice: gli Stati nazionali devono provvedere, sul locale, a risolvere, o quanto meno a contenere, gli enormi problemi causati a monte, dalle organizzazioni sovranazionali di carattere finanziario. 

Gli esempi sono numerosissimi. Ne citiamo qualcuno per cercare di spiegarci al meglio. 

Intanto, se la globalizzazione e la competitività senza freni spingono verso un peggioramento costante delle condizioni lavorative e della occupazione, a lor signori serve che siano i singoli Stati a provvedere da sé ai problemi derivanti da masse di persone che perdono il lavoro. 

Se beni pubblici vengono privatizzati a forza, naturalmente con l’obiettivo di rendere privati dei redditi di una cosa che prima era di tutti, sono gli Stati nazionali che devono provvedere a trovare le condizioni di ripiego per offrire ai cittadini, pur con meno risorse, i servizi di cui necessitano. 

Se le condizioni sociali di un Paese peggiorano, aumenta lo sconforto e la criminalità, sono ancora una volta sempre le realtà locali a doversi far carico della situazione. 

La speculazione, la globalizzazione operano dall’alto e rastrellano dove più gli è utile lasciando le macerie sul posto in cui sono passate. Sono poi i locali a doversela vedere. A dover ricostruire, a dover contenere, a dover reprimere gli umori da caso a caso. 

E dunque, in ultima analisi, è davvero il caso, almeno per chi ha a cuore un lavoro di tipo intellettuale e saggistico per cercare di capire il nostro tempo e provare a offrire delle soluzioni, non fosse altro che a livello comunicativo per cercare di aprire gli occhi a quante più persone sia possibile, iniziare a concepire che siamo ormai in una seconda fase della globalizzazione, della post-modernità. Il discorso teorico sull’annientamento degli Stati nazione è ormai superato da una nuova “strategia” di governance mondiale. Questa vuole continuare a operare indisturbata per favorire gli interessi delle organizzazioni sovranazionali, certo, continua ad accumulare pezzi di sovranità sottratta a ogni singolo Stato, ma impone che i problemi derivanti dal suo operato siano affrontati in loco. 

I rifiuti tossici del loro operato dobbiamo essere noi a ripulirli e a eliminarli. Mettere a fuoco questo ulteriore passaggio è indispensabile, anche a livello teoretico, per isolare e rendere più chiaro ancora meglio il nemico principale di questi tempi. 

Valerio Lo Monaco 


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