Era il simbolo del nuovo sviluppo africano: l'illusione è finita
DOMENICO QUIRICO
CORRISPONDENTE DA PARIGI
Manuel fa il sindacalista a Maputo, mestiere difficile in Africa. E dovrebbe essere ricco, o almeno in via di rapido sviluppo. Glielo assicurano tutti. Pazienza il governo del suo paese, il Mozambico, vecchi marxisti che promettendogli un radioso avvenire hanno fatto schiattare un milione di persone per anni in una sanguinosa guerra civile. L’imperialismo è sempre lì, e quelli gli ex del partito unico, sono sempre ricchi, prima perché erano l’avanguardia del socialismo africano e meritavano qualche riguardo, e adesso perché sono sempre al potere, in quanto avanguardia dell’efficienza capitalistica. Questi Manuel e i mozambicani li lasciano da parte, non credono più alle chiacchiere.
Ma alla Banca mondiale, al fondo monetario, agli economisti occidentali si dovrà pur credere! E tutti dicono loro, da anni, che questo paese è uno dei nuovi miracoli dell’Africa: sottosviluppo in calo rapido, debito con l’estero saldato, tasso di crescita economica medio dell’otto per cento che lo sognano persino a Londra Roma e Parigi. Per non parlare degli ex colonialisti portoghesi. Non rimpiangevano, i signori dell’economia, nemmeno i 15 miliardi di dollari di aiuti versati dopo la fine della guerra civile; e la cancellazione di 1,3 miliardi di debiti. Soldi ben spesi! Il fatto che in cambio fossero state privatizzate 1200 imprese prima malmenate dalla inefficienza african-comunista e l’arrivo degli investitori stranieri alla ricerca rapace di manodopera a basso costo bastavano, eccome!, per definirlo il paese prediletto del fondo monetario. I sudafricani, gli ex razzisti, erano quelli che si ritagliavano gli affari migliori, assicurandosi le miniere di carbone del nord. Che il presidente che si chiama Guezeba sia soprannominato Guebussiness vorrà ben dire qualcosa.
E invece milioni di mozambicani in immancabile sviluppo verso gli obbiettivi del millennio soccombono sempre alla dieta rigorosa della miseria. Adesso fa piangere pensarci ma uno dei segni scelti da quelle eccellenze economiche per indicare che il paese era in pieno boom era la moltiplicazione delle biciclette! E’ bastato un aumento del prezzo del pane, diciassette per cento annunciato dal governo per scombinare tutto. Ed ecco che due settimane fa un paese intero, coccolato dalla globalizzazione virtuosa è sceso in strada. In rivolta i quartieri poveri di Maputo dove gli economisti del fondo monetario non sono mai venuti per non sporcarsi le scarpe, perché non ci sono fogne e i mercati sono sempre vuoti.
Hanno tirato fuori le pietre i bastoni i machete. Tre, quattro giorni di una bella rivoluzione all’africana con l’assalto ai negozi, le auto bruciate gli scontri con la polizia antisommossa. Che, anche lei, ha fatto un bel tuffo nella preistoria, dimenticando la democrazia fresca di vernice e sparando a altezza uomo. Tredici morti, forse di più... Rabbie eccessive? Ad agosto è aumentato il riso dal dieci al venticinque per cento a seconda delle regioni, la benzina è aumentata quattro volte in un anno, il governo che ci tiene ad avere i conti a posto, annuncia che aumenteranno l’acqua e la luce. Aveva tenuto finora i prezzi artificialmente bassi, per non avere guai politici, e aveva finto di ignorare una prima rivolta causata dell’aumento dei taxi collettivi che qui sono l’unico mezzo di trasporto.
Ma il Fondo monetario premeva, bisognava rispettare l’immagine di paese che sa rimborsare i debiti e sviluppare una economia ammodo. Adesso parlano tutti di nuovo del Mozambico come ai tempi in cui era la frontiera della eroica lotta contro il regime dell’apartheid. Perché l’occidente ha paura che faccia scuola, che sia solo l’inizio e che mezza Africa appena traghettata nella casella dello sviluppo grazie a internet e al petrolio si ritrovi in rivolta. Scoprono che nel paese del miracolo il 65 per cento dei 23 milioni di abitanti vive ancora sotto la soglia della povertà anche nella capitale, che nelle campagne e nei barrios poveri lo sviluppo non lo ha visto nessuno. E che su 600 mila tonnellate di riso consumate ogni anno la metà è di importazione.
La Stampa
DOMENICO QUIRICO
CORRISPONDENTE DA PARIGI
Manuel fa il sindacalista a Maputo, mestiere difficile in Africa. E dovrebbe essere ricco, o almeno in via di rapido sviluppo. Glielo assicurano tutti. Pazienza il governo del suo paese, il Mozambico, vecchi marxisti che promettendogli un radioso avvenire hanno fatto schiattare un milione di persone per anni in una sanguinosa guerra civile. L’imperialismo è sempre lì, e quelli gli ex del partito unico, sono sempre ricchi, prima perché erano l’avanguardia del socialismo africano e meritavano qualche riguardo, e adesso perché sono sempre al potere, in quanto avanguardia dell’efficienza capitalistica. Questi Manuel e i mozambicani li lasciano da parte, non credono più alle chiacchiere.
Ma alla Banca mondiale, al fondo monetario, agli economisti occidentali si dovrà pur credere! E tutti dicono loro, da anni, che questo paese è uno dei nuovi miracoli dell’Africa: sottosviluppo in calo rapido, debito con l’estero saldato, tasso di crescita economica medio dell’otto per cento che lo sognano persino a Londra Roma e Parigi. Per non parlare degli ex colonialisti portoghesi. Non rimpiangevano, i signori dell’economia, nemmeno i 15 miliardi di dollari di aiuti versati dopo la fine della guerra civile; e la cancellazione di 1,3 miliardi di debiti. Soldi ben spesi! Il fatto che in cambio fossero state privatizzate 1200 imprese prima malmenate dalla inefficienza african-comunista e l’arrivo degli investitori stranieri alla ricerca rapace di manodopera a basso costo bastavano, eccome!, per definirlo il paese prediletto del fondo monetario. I sudafricani, gli ex razzisti, erano quelli che si ritagliavano gli affari migliori, assicurandosi le miniere di carbone del nord. Che il presidente che si chiama Guezeba sia soprannominato Guebussiness vorrà ben dire qualcosa.
E invece milioni di mozambicani in immancabile sviluppo verso gli obbiettivi del millennio soccombono sempre alla dieta rigorosa della miseria. Adesso fa piangere pensarci ma uno dei segni scelti da quelle eccellenze economiche per indicare che il paese era in pieno boom era la moltiplicazione delle biciclette! E’ bastato un aumento del prezzo del pane, diciassette per cento annunciato dal governo per scombinare tutto. Ed ecco che due settimane fa un paese intero, coccolato dalla globalizzazione virtuosa è sceso in strada. In rivolta i quartieri poveri di Maputo dove gli economisti del fondo monetario non sono mai venuti per non sporcarsi le scarpe, perché non ci sono fogne e i mercati sono sempre vuoti.
Hanno tirato fuori le pietre i bastoni i machete. Tre, quattro giorni di una bella rivoluzione all’africana con l’assalto ai negozi, le auto bruciate gli scontri con la polizia antisommossa. Che, anche lei, ha fatto un bel tuffo nella preistoria, dimenticando la democrazia fresca di vernice e sparando a altezza uomo. Tredici morti, forse di più... Rabbie eccessive? Ad agosto è aumentato il riso dal dieci al venticinque per cento a seconda delle regioni, la benzina è aumentata quattro volte in un anno, il governo che ci tiene ad avere i conti a posto, annuncia che aumenteranno l’acqua e la luce. Aveva tenuto finora i prezzi artificialmente bassi, per non avere guai politici, e aveva finto di ignorare una prima rivolta causata dell’aumento dei taxi collettivi che qui sono l’unico mezzo di trasporto.
Ma il Fondo monetario premeva, bisognava rispettare l’immagine di paese che sa rimborsare i debiti e sviluppare una economia ammodo. Adesso parlano tutti di nuovo del Mozambico come ai tempi in cui era la frontiera della eroica lotta contro il regime dell’apartheid. Perché l’occidente ha paura che faccia scuola, che sia solo l’inizio e che mezza Africa appena traghettata nella casella dello sviluppo grazie a internet e al petrolio si ritrovi in rivolta. Scoprono che nel paese del miracolo il 65 per cento dei 23 milioni di abitanti vive ancora sotto la soglia della povertà anche nella capitale, che nelle campagne e nei barrios poveri lo sviluppo non lo ha visto nessuno. E che su 600 mila tonnellate di riso consumate ogni anno la metà è di importazione.
La Stampa
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