giovedì 16 settembre 2010

Sono contrario, da sempre, alla pena di morte e mi fa orrore la sola idea della lapidazione, ma non ho firmato e non firmerò la campagna d'autore promossa da Bernard Henry Levy per la liberazione di Sakineh Ashtiani, né firmerò gli appelli lanciati da altri bei nomi del mondo artistico e intellettuale (molti dei quali già sottoscrittori, come il maitre a pensèr franco-tunisino, dell'appello salvacondotto per il regista Roman Polanski).

La contrarietà alla pena capitale (in ogni sua forma: dalla meno violenta a quella più efferata) non fuga infatti perplessità e dubbi, che invece sembrano non sfiorare le decine di migliaia di persone che hanno sottoscritto l'appello dando per certo che la condanna della donna azera sia il frutto di un processo farsa, basato su un'istruttoria condotta sul modello di quella descritta da Alessandro Manzoni nella “Storia della Colonna Infame”.

Ecco: io non so in base a quali dirette, concrete conoscenze del caso giudiziario, i sottoscrittori dell'appello possano affermare con sicurezza quanto in esso si sostiene e cioè che non vi siano prove della colpevolezza della Ashtiani e che la confessione di colpevolezza sia stata estorta con la tortura, e che quindi la Ashtiani debba essere liberata.
Mi sembra però che la campagna si stia trasformando, se già non lo era in partenza, più in un battage propagandistico contro l'Iran che in un appello a favore della donna azera.

L'impressione è che le notizie sul “caso Sakineh”, o meglio le “novità” sulle finte esecuzioni e su angherie simili, siano immesse nel circuito mediatico senza alcun vaglio critico; da ultimo quella relativa alle novantanove frustate che sarebbero state inferte alla donna per la pubblicazione di una sua foto senza velo islamico (foto che invece raffigurava un'altra persona; pare una dissidente iraniana) sul London Times.

La notizia è già stata smentita dall'ex avvocato della Ashtiani, il quale ha affermato che la pena non sarebbe stata ancora eseguita.
La smentita ha un qualcosa di pleonastico, ma dimostra la consistenza delle fonti su cui si fonda la campagna: chi ha avuto modo di vedere la foto pubblicata dal London Times può facilmente accorgersi che la donna rappresentata dalla foto del giornale inglese raffigura una donna dai lineamenti assai diversi da quelli della Ashtiani.
Immagino pertanto che anche il più miope degli aguzzini fosse in grado di rendersi conto che si trattava di due donne diverse e che pertanto non vi era alcun motivo (ancorchè abominevole) per punire la Ashtiani per una foto di un'altra donna.

Sembra però che gran parte dell'opinione pubblica sia refrattaria a qualsiasi considerazione critica e ciò grazie alla acquisita permeabilità rispetto a qualsiasi notizia negativa che riguardi, in generale, l'Iran, considerato (immotivatamente) uno Stato retrogrado e primitivo.
Una falsa immagine che ha consentito di accreditare, in un primo momento, la versione secondo cui la donna azera era stata condannata alla lapidazione solo perchè ritenuta colpevole di adulterio, anzichè -come poi ci hanno consentito di apprendere- di concorso in omicidio.

Se la questione non riguarda più la lapidazione per adulterio, ma la pena di morte per omicidio, il dramma personale di Sakineh Ashtiani assume carattere universale per via della non accettabilità della pena di morte come sanzione.

Questione che però riguarda, oltre all'Iran, altri 49 Paesi che applicano "ordinariamente" la pena di morte (e altri 48 Paesi i cui ordinamenti la prevedono); ma riguarda soprattutto le anonime migliaia di uomini e donne , i cui volti non vedremo mai appesi sui muri di qualsivoglia municipio o ministero, nonostante qualcuno di loro sia (statisticamente) innocente.
E a favore dei quali, nessuno escluso o esclusa, lancio il mio personalissimo, e soprattutto modesto, appello affinchè tutti gli Stati aderiscano alla moratoria contro la pena capitale.

Lorenzo Borrè

Arianna Editrice

0 commenti:

Posta un commento