martedì 28 febbraio 2012

TUTTE LE STRADE PORTANO A “WASHINGTON” (ALTRO CHE MERKOZY)

Sicuramente, il dibattito sull’attuale stato in cui si versa l’Europa è basato principalmente sulle tematiche economiche che sembrano affliggerla: la crisi dell’euro, il ruolo della Bce, il commissariamento de facto di alcuni governi ecc. Per molti, però, queste altro non sono che le classiche tesi “economiciste”, che tralasciano, volontariamente o no, le reali questioni di potere che determinano gli assetti attuali dell’intera zona europea. Per arrivare a comprendere le reali questioni in essere è d’obbligo conoscere le reali motivazioni e gli interessi strategici che posero le basi dell’Europa unita alla fine della seconda guerra mondiale.

Genesi di un progetto a stelle e strisce

Documenti declassificati americani dimostrano come tra gli anni ’50 e ’60 l’intelligence e il governo americano spingessero per una rapida unificazione europea. Un memorandum datato 26 luglio 1950, redatto dal Gen. William Donovan - capo dell’OSS (organismo precursore della Cia) – prescriveva tutte le istruzioni necessarie atte alla creazione di un Parlamento europeo con pieni poteri. L’organizzazione con la quale Washington intendeva plasmare l’agenda europea era la “American Committee for a United Europe” (Acue), creata nel 1948, che vedeva nel suo board Donovan alla presidenze, Allen Dulles (direttore della Cia negli anni ’50) alla vicepresidenza ed altri membri dell’Oss – Cia in importanti ruoli dirigenziali. I documenti dimostrano, inoltre, che l’ACUE fu uno dei più grandi finanziatori del Movimento Federalista Europeo, una delle organizzazioni “europeiste” più importanti dell’immediato dopoguerra. I leader del Movimento Europeo erano Joseph Retinger, Robert Schuman e Paul Henri Spaak, i quali erano considerati perfettamente manovrabili dai loro sponsor americani. I finanziamenti all’ACUE provenivano in larga parte da due fondazioni private americane e precisamente la Ford e la Rockefeller Foundation. Il capo della Ford Foundation, l’ex ufficiale dell’Oss Paul Hoffman, divenne a sua volta, alla fine degli anni ’50, presidente dell’Acue. Anche il Dipartimento di Stato americano rivestì un ruolo importante in questi anni; infatti, in un documento dell’11 giugno 1965 della sezione europea si suggeriva al vicepresidente della Comunità Economica Europea (Cee), Robert Marjolin, di perseguire il progetto dell’unità monetaria furtivamente. Infine, nel documento si raccomandava di soffocare qualsiasi dibattito sulla questione fino a quando “l’adozione di tale proposta non fosse divenuta praticamente inevitabile”.

Tra intromissioni sostanziali e libertà formali

Certamente, la costruzione di un’Europa unita, almeno negli anni

post-bellici e pre-caduta Muro di Berlino, era in chiave strategica per gli esiti e le compromissioni derivanti dalla Guerra Fredda. E’ indubbio che il Governo americano abbia influenzato la vita “democratica” dei Paesi europei per assoggettarli alle loro direttive, ed in questo le vicende italiane di quegli anni sono senz’altro l’emblema di questo sistema. Parallelamente alla costruzione europea dettata da trattati di indubbia matrice liberista, - basta vedere il Trattato di Roma del 1957, che istituiva la “libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali” sul territorio europeo - ai singoli Stati europei viene lasciata, almeno apparentemente, mano libera sulle questioni economiche interne. Questi sono gli anni del massiccio intervento statale nell’economia, che portò alla nascita del cosiddetto “Stato sociale” o, per meglio dire, assistenziale. A differenza degli Usa, dove l’intervento statale nell’economia aveva ben poco a che fare con il sociale, l’Europa, che era uscita dalla guerra distrutta e con immensi problemi sociali, aveva bisogno di tenere a bada le masse popolari, essendo essa in pieno confronto con il campo “socialista” dell’Urss. Per questo, la chiave “assistenziale” altro non fu che una scelta strategica di contenimento di eventuali spinte popolari contro il regime capitalistico europeo. Infine, è da notare che i massimi relatori del Trattato di Roma furono Paul-Henri Spaak (Movimento Federalista Europeo) e Jean Monnet, uomo politico formatosi oltre Atlantico sotto la guida del finanziere Paul Warburg (uno dei fondatori del Council on Foreign Relations), che già nel 1943, in una lettera inviata a Roosevelt, sognava un’Europa dove “gli Stati non si ricostituiscano sulla base di sovranità nazionali, ma in forma di federazione che ne faccia un’unità economica comune”.

Il crollo degli equilibri…

Dopo il 1989, con la caduta del Muro di Berlino, gli assetti che avevano retto gli equilibri mondiali crollano rapidamente. Il progetto di globalizzazione dei mercati, tanto voluto dai centri di potere americani, finalmente prende corpo: nel febbraio 1992 viene firmato il Trattato di Maastricht che porta alla nascita dell’Unione Europea e della moneta unica; nel dicembre dello stesso anno viene firmato l’accordo del NAFTA, che dà vita all’area di libero scambio tra Usa, Canada e Messico; infine, nell’aprile del ’94 viene firmato l’Accordo di Marrakech, il quale sancisce la nascita dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Sempre in questi anni, e sempre prendendo ad esempio l’Italia, è possibile vedere l’incessante zampino statunitense nei processi di trasformazione dei vari Paesi europei. Ad esempio, in Italia, sembra esserci la “manina d’oltreoceano” nella vicenda giudiziaria di mani pulite, che portò al crollo di un’intera classe politica oramai non più funzionale per i nuovi assetti mondiali. La stessa manina sembrerebbe esserci anche nei processi di privatizzazione dell’industria pubblica italiana, letteralmente cannibalizzata dai centri finanziari angloamericani. Non c’è da stupirsi, poi, del fatto che i cosiddetti tecnocrati europei siano personaggi legati a doppio filo con centri di potere politici e finanziari statunitensi. Sempre prendendo come esempio l’Italia o, in questo caso, gli italiani: Romano Prodi, ex presidente del Consiglio italiano ed ex presidente della Commissione Europea, in passato membro della Goldman Sachs, della General Electric e della Unilever; Mario Draghi, attuale presidente della Bce ed ex governatore della Banca d’Italia, che è stato vicepresidente per l’Europa di Goldman Sachs e membro della Banca Mondiale; Mario Monti, odierno presidente del Consiglio italiano ed ex commissario europeo, affiliato anch’egli alla Goldman Sachs ed ex advisor della Coca-Cola Company e di Moody’s, oltre che ex componente dell’Atlantic Council. Per queste ragioni, non deve stupire l’interessamento ossessivo degli Stati Uniti nelle vicende europee, soprattutto oggi a causa della crisi dell’euro; infatti, gli americani chiedono insistentemente un rafforzamento del fondo Salva-Stati, passo essenziale per rendere, almeno temporaneamente, l’Europa e l’euro più solidi, in modo tale da far divenire il dollaro più competitivo. In conclusione, è bene tenere a mente alcune delle ultime affermazioni di Mario Draghi e di Mario Monti. Il primo ha affermato in un’intervista al Wall Street Journal che “il modello sociale europeo è morto”. Questa affermazione non deve affatto stupire perché oramai, nell’attuale mondo globalizzato, non ci sono più le condizioni politiche, economiche e soprattutto strategiche, affinché l’Europa mantenga ancora il suo sistema di welfare. Le affermazioni di Mario Monti, invece, fatte nel suo ultimo viaggio a Washington, non fanno che avvalorare la tesi della forte subalternità europea nei confronti degli Stati Uniti. Infatti, il tecnocrate ha spudoratamente affermato: “le imprese americane, soprattutto le grandi, sono state sempre tra i fattori di spinta dell'integrazione europea, per il loro vantaggio materiale”.

Altro che Merkozy…
A.D.G. LA VOCE DEL CORSARO


e godiamoci il bel progetto europeo che, ricordo, in 10 anni di euro  HA DERUBATO GLI ITALIANI DEL 40% DEL POTERE DI ACQUISTO
Ecco gli altri "benefici"....

Dove sta la verità?
Di Francesca Lippi

La Fornero ha lanciato l’allarme pochi giorni fa commentando l’ultima rilevazione Eurostat. A quanto pare in Italia i lavoratori sarebbero retribuiti meno dei colleghi europei. Anzi: gli italiani guadagnerebbero addirittura meno dei greci, degli irlandesi e degli spagnoli, con 23.406 euro annui. Si tratta di quasi la metà dei 48.914 euro dei lussemburghesi, dei 44.412 euro degli olandesi e dei 41.100 euro dei tedeschi. Non finisce qui, però. Anche per quel che riguarda l’aumento delle già misere retribuzioni stiamo messi male. Il Belpaese in quattro anni avrebbe visto gli stipendi crescere di soli 3,3 punti percentuali, contro il 29,4 per cento della Spagna e il 22 per cento del Portogallo, seguiti a loro volta dal 16,1 per cento del Lussemburgo, dal 14,7 per cento dell’Olanda, dall’11 per cento del Belgio, dal 10 per cento della Francia e dal 6,2 per cento della Germania. “In Italia abbiamo salari bassi e un costo del lavoro comparativamente elevato”, ha detto Elsa Fornero: come darle torto?

Eppure c’è chi lo ha fatto. Ecco pronta la risposta di MF-Milano Finanza: i dati Eurostat citati dalla Fornero? Una bufala clamorosa. Secondo il quotidiano, si tratta solo di “conclusioni affrettate”. E i numeri riportati? Non sarebbero “confrontabili tra paesi”. Il ragionamento di MF-Milano Finanza è semplice: se fosse stato davvero così, le multinazionali farebbero la fila per produrre nello Stivale, ma così non è, visto che il nostro paese non è in grado di attrarre capitali dall’estero.

Se si dovesse considerare la questione della difficoltà italiana di attrarre capitali esteri, il sito doingbusiness.com ci piazza al di sotto di paesi come gli Usa, la Danimarca, il Regno Unito, l’Islanda o la Svezia dove gli stipendi dei dipendenti sono più alti dei nostro, ma anche sotto a paesi come il Botswana, l’Albania o la Zambia fino a farci scivolare a un misero 87° posto dei business planetari ( http://www.doingbusiness.org/rankings ). Il problema della difficoltà di investimenti, infatti, scaturirebbe anche da fattori come la facilità con cui si inizia un’impresa o con cui si ottengono permessi di costruzione, o ancora dalla semplicità di ottenere credito dagli istituti bancari, dal livello delle tasse, dalla tutela degli investitori fino ad arrivare alla risoluzione dell’insolvenza: in queste singole voci l’Italia non si piazza molto bene nel ranking mondiale. Che sia un segno del fatto che non basta pagare ancora meno i lavoratori per far funzionare l’economia?

Ad ogni modo, MF ha deciso di contattare l’Istat per farsi fare una nota tecnica, pubblicata poi sul sito del governo. E così, secondo questa nuova tabella, il salario “medio” degli italiani salirebbe a 29.653 euro all’anno, quindi perfettamente in linea con la media dei 27 paesi dell’Unione e dei 17 paesi dell’Eurozona.

Ma dove sta allora la verità? Se è vero che non si può fare davvero un confronto con gli altri paesi dell’Unione, è anche vero che la “media” degli stipendi è –appunto- una “media”, fra gli stipendi della massa e gli emolumenti di una certa minoranza dotata di introiti d’oro.

A quanto pare, infatti, i dirigenti pubblici italiani sarebbero quelli più pagati non in Europa, bensì su tutto il pianeta. Questa volta i dati sarebbero quelli Ocse del rapporto “Government at a Glance 2011” e potrebbe fornire una spiegazione dell’aumento numerico della media degli stipendi italiani. E così, i dirigenti pubblici si confermerebbero i primi in classifica, con un calcolo ponderato in base al costo della vita e al pil che li vedrebbe addirittura sforare i 400 mila dollari annui superando i loro omologhi mondiali, se si pensa che negli Usa si superano di poco i 250.000 dollari: una miseria in confronto ai nostri.

Così, se si prendessero in considerazione gli infermieri, per esempio, di vedrebbe che questi si devono accontentare di stipendi di poco superiori a quelle dei colleghi turchi e messicani – altro che Grecia, spagna, e Portogallo- e comunque inferiori ai 40 mila dollari lordi annui, superati ancora una volta dai tedeschi, ma anche dagli australiani, dagli inglesi e dagli americani: guarda caso paesi in cui molti professionisti italiani stanno emigrando.

Futuro Libero


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