L’opportunità ci è viene offerta da un approfondito articolo, ormai datato, del settimanale tedesco Der Spiegel che è possibile leggere integralmente nella versione inglese.

L’articolo si basa su una serie di documenti, alcune centinaia di pagine, messi a disposizione del settimanale dal Governo tedesco e risalenti al periodo 1994-98. Da quanto sembra, l’Italia non avrebbe dovuto essere accettata secondo i requisiti economici, ma fu accettata
su valutazioni politiche, creando nel contempo un precedente per un errore ancor più grave due anni più tardi: l’ingresso della Grecia nell’Eurozona.
Da quanto risulta l’amministrazione di Helmut Kohl era pienamente consapevole delle condizioni economiche italiane e che le misure di austerità erano solo di facciata o espedienti contabili; tanto che Gerhard Schröder, suo successore con una schiacciante vittoria, definì l’euro più tardi “un neonato prematuro di salute cagionevole”.
Ma l’operazione di “auto-inganno” iniziò ancor prima, nel 1991 a Maastricht, quando per garantire la stabilità della moneta unica si dovettero definire dei criteri rigorosi: bassa inflazione, basso indebitamento annuo e un livello di debito sotto controllo. Si tratta dei famosi rapporti deficit/Pil non superiore al 3%, debito/Pil inferiore al 60% e un tasso di inflazione non superiore dell’1,5% rispetto a quello dei tre paesi più virtuosi; a questi parametri si aggiungevano un tasso di interesse non superiore del 2% rispetto a quello dei tre paesi più virtuosi e la permanenza negli ultimi due anni nello SME (Sistema Monetario Europeo) senza fluttuazioni significative della moneta.
Man mano che ci si avvicinava alla data di adozione l’Italia migliorava significativamente la sua posizione economica riuscendo a rispettare miracolosamente i criteri di partecipazione. I funzionari della Cancelleria tedesca non celavano i forti dubbi nei confronti del nostro paese, tanto che in un vertice bilaterale nel 1997 dovettero constatare con grande sorpresa che il deficit di bilancio era inferiore a quello indicato dal FMI e dall’Ocse.
Dopo pochi mesi Jurgen Stark segretario di Stato del Ministero delle Finanze tedesco riferiva di alcune pressioni da parte di Italia e Belgio sul capo della banca centrale affinché ammorbidisse le proprie perplessità; d’altra parte l’Italia tra il 1994 e il 1997 era riuscita a diminuire del 3% il proprio indebitamento.
Eppure non bastava ancora. Sempre Jurgen Stark rilevava che un debito/Pil vicino al 120% non poteva soddisfare i criteri dettati da Maastricht, domandandosi nel contempo se un membro fondatore della Comunità Europea avrebbe potuto essere escluso dall’Unione monetaria.
Pur di fronte a un sorprendente progresso dei conti del nostro paese, non mancavano nei documenti ufficiali tedeschi delle note piuttosto critiche: il 3 febbraio 1997 si rilevava che alcune misure di risparmio erano state omesse, per salvaguardare il consenso sociale; il 22 aprile una nota ribadiva l’impossibilità materiale di soddisfare i criteri; il 5 maggio analizzando le moderate prospettive di crescita dell’Italia si giudicavano i passi compiuti dal nostro paese per lo più sopravvalutati.
Nel 1998, anno decisivo per l’introduzione dell’euro, in un incontro il 22 gennaio si constatava che nessuna di queste condizioni si era modificata; a marzo Horst Kohler, ex capo negoziatore tedesco passato alla presidenza di un’associazione bancaria, scrisse al Cancelliere che l’Italia conservava un deficit permanente e un debito elevato, tale da mettere a rischio la stessa sostenibilità dell’euro.
Nel contempo a metà marzo in un’audizione di fronte alla Corte Costituzionale, con il Ministro delle Finanze Theo Waigel e il presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer, il capo della divisione economica Sighart Nehring fece presente i rischi enormi associati agli elevati livelli di debito dell’Italia, rilevando che le spese italiane sarebbero aumentate notevolmente se i tassi di interesse fossero lievitati anche di una modesta entità.
Ancor più severi gli olandesi che affermarono che in assenza di misure supplementari per assicurare un calo strutturale del debito sarebbe stato inaccettabile accogliere l’Italia nell’euro.
Ma Kohl restò sordo alle voci di allarme provenienti da più parti e in un vertice a Bruxelles nei primi giorni di maggio del 1998 dichiarò che, sentendo il peso della storia, avrebbe fornito il suo appoggio incondizionato alla moneta unica purché vi avessero fatto parte anche gli italiani.
Un atto di estrema fiducia nei confronti dell’Italia e degli italiani, forse favorito dal grande sentimento di stima di Helmut Kohl nei confronti di Romano Prodi e di Carlo Azeglio Ciampi. O forse semplicemente un calcolo politico dato che anche la Germania aveva aumentato il debito a partire dal 1994, pur con le circostanze attenuanti che in assenza della costosa riunificazione tedesca il debito/Pil si sarebbe attestato al 45%.
In ogni caso nella primavera del 1998 l’ufficio statistico europeo certificò il soddisfacimento dei criteri di Maastricht da parte dell’Italia e a quel punto anche Waigel convenne che non vi era più alcun motivo per bloccare gli italiani. Ma le cifre erano state edulcorate ed era risaputo, il governo italiano si impegnava comunque a raggiungere un debito/Pil del 60% entro il 2010.
Già il 10 luglio 1998 l’ambasciatore Kastrup faceva presente a Bonn che a Roma si iniziava ad avvertire un certo lassismo, una sorta di pausa nel percorso di risanamento dopo la forte galoppata per rispettare i parametri di Maastricht. Ad agosto il Ministero delle Finanze italiano ammetteva un deficit di bilancio maggiore di quello dell’anno precedente. Stephan Freiherr von Stenglin, l’addetto finanziario presso l’ambasciata tedesca a Roma, annotava con vigore come il peggioramento dei conti pubblici poteva mettere a repentaglio la credibilità dell’impegno italiano.
Dopo la caduta del Governo Prodi, durante la Presidenza del Consiglio di Massimo D’Alema, le condizioni economiche si aggravarono ulteriormente. D’Alema propose delle misure di stimolo mediante l’emissione di Eurobond, suggerendo di non calcolare l’indebitamento associato nei deficit nazionali. Una proposta che venne rigettata dal nuovo Governo tedesco guidato da Schröder, malgrado le insistenze del governo italiano a fronte di una interpretazione più flessibile dei Trattati di Maastricht. Un tema che si sarebbe ripresentato dopo qualche anno, quando Francia e Germania nel 2003 superarono la soglia del 3% per il debito/Pil.
Poche settimane prima del lancio della moneta europea, la valutazione di von Stenglin assumeva ancora una volta una sfumatura drammatica, con una nota in cui scriveva: “Ci dobbiamo domandare se un paese con un rapporto di debito estremamente elevato non rischi un gioco d’azzardo rispetto agli sforzi di risanamento compiuti, danneggiando così non solo se stesso, ma anche l’unione monetaria.” Era evidentemente un’osservazione profetica: nell’autunno del 2011, quando l’Italia entrò nel vortice della crisi, il debito era nuovamente salito sopra il 120 per cento del Pil.
Questo l’avvincente resoconto del settimanale Der Spiegel, certamente una visione dal punto di vista tedesco, ma che coloro che hanno vissuto quei periodi non faticano a riconoscere perlomeno nei tratti essenziali. Si tratta di fatti ormai consegnati alla valutazione della storia e che ci permettono già oggi di trarre alcune considerazioni:
  • Evidentemente i parametri di Maastricht furono definiti perché si dovevano definire dei criteri di convergenza dei bilanci nazionali, ma non furono supportati dalla necessaria convinzione. Da qui il fatto che in alcuni momenti storici furono intesi come irrinunciabili e in altri furono di fatto aggirabili. La mancanza di convinzione sulla necessità di questi parametri avrebbe di fatto costituito la “porta nel retro” (backdoor) per tollerare i trucchi contabili necessari ad allineare le diverse economie dell’Eurozona.
    Anche sulla congruità di questi parametri potrebbero essere avanzate alcune riserve.
    Questa interpretazione sarebbe avvalorata da un articolo de Le Parisien ripreso in italiano da PressEurop in cui si racconta che il rapporto deficit/Pil al 3% fu definito ben 10 anni prima di Maastricht dal Governo Mitterrand in un modo piuttosto casuale.
  • Creare una serie di parametri a cui sottostare per entrare nella moneta unica e poi non definire i parametri che comportano un’uscita, o perlomeno le sanzioni del non rispetto, è senza alcun dubbio un atteggiamento negligente e irresponsabile. Non è omettendo le procedure di uscita che si può pensare di mantenere la stabilità di un sistema monetario complesso che deve coesistere con economie molto differenti tra loro. E’ inevitabile che i problemi prima o poi si sarebbero presentati e sarebbero diventati ingovernabili; illusorio pensare che l’insorgere delle difficoltà avrebbero potuto accelerare un’unione politica che era stata accantonata da oltre un decennio.
  • Constatare che ancora oggi il rapporto debito/Pil italiano sia di gran lunga superiore al 120% rende l’idea delle occasioni mancate dal nostro paese; il bonus rappresentato dall’ingresso nell’euro è stato dissipato dai Governi che si sono alternati aumentando la spesa pubblica e il debito dello Stato.
    Di fatto l’aumento del debito in Italia è cronico: si veda a tal proposito l’Osservatorio trimestrale Italia 3 trimestre 2012: Pil, debito & Co. In questi anni si sono succedute numerose manovre finanziarie e aumenti della tassazione; non vi è ragione di ritenere che ulteriori inasprimenti fiscali, nuove tasse o patrimoniali possano compiere in futuro ciò che in condizioni molto più favorevoli non è stato fatto.
  • Le misure sinora attuate a supporto della crisi dal Governo italiano, dall’Unione Europea e dalla Banca Centrale Europea continuano a cercare di curare i sintomi, senza risolvere le cause. Il pervicace intento di mantenere tutti gli stati, meritori o meno, all’interno della moneta unica per evitare di affrontare i costi di una separazione ha già prodotto costi ingenti e ha posto le basi per ulteriori pesanti sacrifici negli anni a venire; costi che naturalmente pagheranno i cittadini, come sempre è successo.
Mazziero Research