venerdì 26 ottobre 2012







di Michele Paris

La macchina dell’FBI per la fabbricazione di presunte minacce terroristiche in territorio americano ha puntualmente partorito l’ennesima cospirazione, debitamente sventata, a meno di tre settimane dalle elezioni presidenziali. A cadere nella rete dell’anti-terrorismo a stelle e strisce è stato qualche giorno fa uno studente 21enne del Bangladesh, accusato di avere progettato un attentato con un autobomba contro la sede della Federal Reserve di New York.
Arrestato mercoledì scorso in una stanza dell’Hotel Millenium di Manhattan,
Quazi Mohammad Rezwanul Ahsan Nafis è subito apparso di fronte ad un giudice federale di Brooklyn prima di essere tradotto in carcere senza
possibilità di cauzione. Nafis era giunto negli Stati Uniti a gennaio con un visto studentesco e dopo un semestre in un college del Missouri si era trasferito a New York, dove aveva trovato un lavoro a tempo pieno in un hotel della città.
Secondo l’FBI, il giovane cittadino del Bangladesh intendeva far saltare un veicolo con quasi 500 chili di esplosivo a bordo di fronte alla sede di New York della Banca Centrale americana. Le accuse a suo carico potrebbero portare ad una condanna fino all’ergastolo.
Come già accaduto in numerose altre occasioni nel recente passato, tuttavia, l’intero progetto terroristico attribuito a Nafis non è in realtà altro che una messa in scena delle forze di polizia federali, senza la cui istigazione e assistenza la minaccia non avrebbe mai visto la luce. Inoltre, sul furgone scelto per l’attentato era stato caricato del finto esplosivo, così come inutilizzabile era il dispositivo a distanza fornito al giovane bengalese per innescare la detonazione.
Tutto il materiale necessario per l’attentato, compreso il trasporto dell’automezzo nel luogo prescelto, è stato fornito a Nafis da agenti sotto copertura facenti parte della cosiddetta “Joint Terrorism Task Force” di New York, un reparto speciale che prevede la collaborazione tra l’FBI e le forze di polizia della città.
Anche in questa operazione, per la quale l’FBI ha tenuto a precisare che ovviamente la popolazione newyorchese non ha mai corso alcun rischio, gli agenti americani si sono con ogni probabilità imbattuti  in un giovane musulmano che potrebbe avere espresso opinioni critiche nei confronti delle politiche anti-terroristiche dell’amministrazione Obama, decidendo di incastrarlo in una cospirazione fabbricata ad arte da offrire ai media e all’opinione pubblica.
La notizia dell’arresto di Nafis è stata accolta con incredulità dai suoi famigliari in Bangladesh, i quali hanno denunciato senza mezzi termini la trappola preparata dal governo americano per il giovane studente. Nel fine settimana, le autorità del Bangladesh hanno annunciato di avere interrogato parenti, ex insegnanti e compagni di scuola di Nafis, senza trovare traccia di un suo coinvolgimento nelle attività di gruppi estremisti.
Gli stessi agenti dell’FBI hanno affermato infatti che al giovane è stato fatto credere di agire per conto di Al-Qaeda ma che non è emerso alcun suo legame con organizzazioni radicali. Secondo i documenti ufficiali, Nafis avrebbe iniziato a stabilire contatti con possibili complici durante l’estate, finendo per imbattersi in un informatore sotto copertura. A supporto di questa tesi non è stata però presentata alcuna prova ed è al contrario molto probabile che sia stato l’FBI a sollecitare Nafis, proponendogli un progetto di attentato già studiato a tavolino.
Le cosiddette “sting operations”, come quella in cui è caduto lo studente bengalese, ammontano ormai a svariate decine da quando Obama si è insediato alla Casa Bianca. Queste operazioni sono interamente organizzate dall’FBI o da altre agenzie governative, i cui informatori o agenti sotto copertura sfruttano la fragilità di giovani appartenenti a minoranze etniche, quasi sempre di fede musulmana, per coinvolgerli in improbabili trame terroristiche.
Queste operazioni in alcuni casi si sono già trasformate in pesantissime condanne, come quella di ben 30 anni inflitta recentemente all’immigrato marocchino Amine El Khalifi, arrestato lo scorso febbraio per avere pianificato un attentato suicida, con finto esplosivo rigorosamente fornito dall’FBI, nella sede del Congresso di Washington.
Nella categoria delle “sting operations” rientra anche l’assurda cospirazione per assassinare l’ambasciatore saudita negli Stati Uniti attribuita ad un iraniano-americano, a processo a New York proprio in questi giorni, con il beneplacito delle autorità di Teheran e attraverso i servizi di membri di un cartello nel narcotraffico messicano che erano in realtà uomini dell’FBI sotto copertura.
Il governo americano ha iniziato da qualche tempo ad utilizzare questo sistema anche per colpire gli oppositori interni, come dimostrano gli arresti di cinque giovani anarchici lo scorso mese di maggio durante il vertice della NATO a Chicago. Fermati a Cleveland, nell’Ohio, costoro erano stati accusati di avere progettato l’esplosione di un ponte, un’idea avanzata proprio da infiltrati dell’FBI che avrebbero anche fornito il decisivo appoggio logistico.
La lista di simili operazioni è ancora molto lunga ed esse vengono talvolta annunciate in concomitanza con importanti appuntamenti elettorali o eventi politici di rilievo, così da mantenere un elevato stato di allerta tra la popolazione americana e giustificare l’adozione di misure di polizia per combattere una minaccia terroristica in gran parte fabbricata.

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