giovedì 12 agosto 2010


di Giorgio Mottola
Claudia Salvestrini, direttrice del consorzio Polieco, racconta come i cinesi hanno conquistato il mercato italiano dei rifiuti, che partono come scarto verso la Cina e ritornano in Europa come merce.
Rifiuti che scompaiono e riappaiono magicamente in Cina. Si trasformano in giocattoli, occhiali da sole, flaconi farmaceutici, bottiglie di plastica e fanno il loro ritorno, da merce, tra gli scaffali dei supermercati occidentali. Ci sono broker cinesi che da anni girano l’Italia a caccia di plastica. Acquistano i rifiuti di polietilene delle grandi aziende per conto di imprenditori del gigante asiatico. Pagano molto bene: gli scarti industriali sono la loro materia prima. È come se importassero petrolio. Una volta arrivato in Cina, il materiale vive una seconda vita grazie a impianti di riciclaggio dove il processo di sterilizzazione è una formalità che rimane solo scritta su carta. E i rischi sono a volte altissimi. I cinesi lo scorso anno hanno esportato in Germania buste di plastica radioattiva: il polietilene, con cui erano state fabbricate, aveva rivestito balle di uranio e nel processo di rigenerazione non era stato adeguatamente trattato.

La storia inizia nel 2001. In quell’anno si è verificata un’improvvisa penuria di scarti di plastica. Dal punto di vista della produzione industriale, però, non si era registrato alcun calo. La quantità di polietilene prodotto e immesso sul mercato era più o meno la stessa degli anni precedenti. Eppure erano state conferite agli impianti di riciclaggio molte meno di tonnellate di rifiuti rispetto agli anni precedenti. In una fase acuta di emergenza che attraversava la Campania e altre regioni,  gli imprenditori italiani della rigenerazione della plastica si sono trovati costretti a comprare l’immondizia all’estero. A molti è venuto qualche sospetto.

Claudia Salvestrini direttrice del consorzio Polieco, che si occupa dello smaltimento del polietilene, ha cominciato a indagare: «Non riuscivamo a capire che fine facessero i rifiuti. Il materiale veniva venduto, ma non trovavamo più lo scarto», spiega Salvestrini, che per il suo impegno sul traffico illegale dell’immondizia è stata premiata da Legambiente nell’ambito della rassegna Festambiente a Grosseto. Poi l’arcano è stato svelato: «La via della plastica era diventata cinese. Veniva spedita via mare  e non con la denominazione di rifiuto, bensì come merce, materia prima. Questo ci obbligava a porci seri problemi rispetto a come questi rifiuti venivano trattati e soprattutto che fine facevano». A partire dal 2005, Claudia Salvestrini fa quindi una serie di viaggi in Cina e visita gli impianti che rigenerano gli scarti di polietilene provenienti dalle aziende europee. La maggior parte si trova nella regione del Fujian, «in un unico villaggio ho contato oltre tremila di questi impianti». La produzione è intensiva, i cinesi hanno un bisogno disperato di materia prima per la loro industria.

«Per questo – spiega la direttrice del Polieco - sono disposti a pagare dei prezzi elevatissimi per avere la nostra spazzatura. La selezione dei rifiuti, che a noi pone problemi immensi, per loro è semplicissima vista la grande disponibilità di manodopera a basso costo». Per aggirare i controlli, nascono in continuazione nuove tratte. Le navi con il cargo di rifiuti, nel loro tragitto verso la Cina fanno uno o più scali: Slovenia, Dubai, Hong Kong. I carichi e le bolle di accompagnamento dei container si trasformano durante il percorso. Nell’affare sono entrati da anni i clan della camorra. Famiglie storiche come quelle dei Licciardi, dei Mallardo o dei Giuliano fin dalla fine degli anni Ottanta hanno organizzato dal porto di Napoli, e più di recente da quello di Salerno, la tratta cinese della monnezza via mare. Rispetto al traffico della plastica, il problema più grande è rappresentato dalle condizioni in cui il processo di rigenerazione si svolge.

«In uno di questi impianti (raffigurato nelle foto in alto, ndr), la plastica viene macinata in grossi vasconi e mescolata con dei forconi. Durante il trattamento non viene utilizzato alcun detersivo, ma solo acqua fredda. Il materiale quindi rimane sporco. Ci hanno detto che quella plastica era destinata alla fabbricazione di suole di scarpe, ma abbiamo scoperto che veniva usata anche per contenitori per il miele». Queste modalità di lavoro riguardano migliaia di altri impianti. E con il polietilene, in molti  casi contaminato, viene poi prodotta la merce che arriva in Europa e negli Usa: spazzolini da denti, biberon, buste, giocattoli, bicchieri, piatti e tutto ciò che è a base di plastica.

«Bisogna intensificare la collaborazione tra autorità italiane e cinesi, che da tempo si sono rese disponibili. La realtà asiatica non è solo rappresentata da situazioni di ingestibile illegalità. A Settembre, alla convention che abbiamo in programma a Ischia porterò numerose aziende cinesi, leader nel settore del riciclaggio che lavorano bene come quelle italiane. Molte ombre infatti nel settore le abbiamo anche in Italia». Più volte Salvestrini ha denunciato la penetrazione della criminalità negli impianti della Penisola, «da Nord a Sud, con ben poche differenze».

Più volte è stata sentita dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulle Ecomafie. Per questo ha subito intimidazioni e minacce di morte, ma non ha perso il piglio polemico: «Come mai solo il nostro consorzio ha fatto le denunce? Da parte del Conai (il Consorzio Imballaggi) non è mai giunta alcuna segnalazione. È possibile che soltanto la Polieco si rende conto di certe situazioni?».
Arianna

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