di GIOVANNI STINCO E CLAUDIO MAGLIULO
Sono italiane molte delle mine che esplodono ogni giorno sotto i blindati Nato, così come sotto i passi dei soldati. Italiani compresi.
Un gigantesco cortocircuito, che emerge dagli oltre 90mila documenti militari Usa, diffusi dal sito di controinformazione WikiLeaks. Migliaia sono i rapporti che parlano di Italia, e di questi, centinaia sono i resoconti di pattuglie o unità di artificieri, che parlano di una sola cosa: mine. Mine italiane e congegni artigianali ma micidiali, gli Ied («Improvised explosive devices»), fabbricati dai taleban con i nostri stessi ordigni. Abbiamo reso un grande servizio all'Afghanistan: prima imbottito di TC-6 («le Ferrari dell'esplosivo anti-carro», stando agli esperti), poi percorso dai nostri blindati. Le strade afghane parlano di Italia a ogni chilometro. Morti e crateri inclusi. Unico neo: quegli «unsufferables» di Emergency (come li definiscono i rapporti Usa), che ricuciono i corpi dilaniati.
Il database di WikiLeaks parla chiaro. Il primo report disponibile a riguardo è datato 6 gennaio 2004. In una perquisizione all'interno di edifici governativi che dovevano ospitare medicine e cibo, viene scoperto un deposito di armi, munizioni ed esplosivi. Tra questi alcune mine italiane anti-carro di tipo 2.4 e TC-6. Da quella data si susseguono senza sosta le testimonianze dei micidiali Ied, in gran parte realizzati con parti di ordigni nostrani.
A quanto pare sono proprio queste mine anti-carro il prodotto made in Italy più diffuso in Afghanistan. Il 14 settembre 2006, quando un mezzo militare Nato viene colpito da uno Ied, si analizza il cratere, e il responso è: mina pakistana... o italiana. Il 5 maggio un'altra pattuglia italiana era stata investita da un'esplosione da Ied vicino Kabul. Due morti e quattro feriti. Il tenente Manuel Fiorito, 27 anni, e il maresciallo ordinario Luca Polsinelli, 29 anni, perdono la vita. Ma non compaiono nel documento Usa. Il 28 agosto 2008 un'altra mina distrugge un blindato italiano e ferisce i tre militari al suo interno; questa volta è senza dubbio una mina italiana.
Sono tre i tipi di ordigni italiani sepolti in Afghanistan, e in totale rappresentano un quarto delle mine anti-carro. Le TC-6, prodotte dalla barese Tecnovar srl, e le 2.4 e Valmara 59 prodotte dalla Valsella Meccanotecnica di Castenedolo, Brescia. Sono dispositivi molto resistenti (durano oltre 50 anni sotto terra, molto più di qualunque protesi) e sono in grado di generare voragini ampie decine di metri. Come quella del 24 maggio 2006: un camion salta su una mina, vicino Yaqubi. Due civili afghani muoiono, un terzo rimane ferito. Gli artificieri Nato riportano: «Il cratere dell'esplosione era profondo 23 metri e ampio 84. A giudicare dalla dimensione del cratere e dalla mancanza di frammenti, era presumibilmente una TC-6 italiana».
Ma come ci sono arrivati lì questi ordigni? Il generale Franco Termentini, esperto di bonifiche, non ha dubbi: «Sono lì da prima del marzo 1989». Si tratterebbe, insomma, di forniture di armi fatte dagli americani agli insorgenti afghani in chiave anti-sovietica. Dopo il ritiro dell'Armata Rossa dall'Hindukush, le mine sono rimaste là e negli anni hanno costituito una vasta risorsa di esplosivi per i «nuovi nemici» taleban, dopo l'11 Settembre 2001. Lo conferma un ufficiale del Pentagono citato dall'Asia Times: le TC-6 di fabbricazione italiana sono «assai comuni» nelle zone sotto il controllo taleban e «continuano a minacciare in modo significativo le forze della Nato».
Ma da quale oscura fabbrica sono usciti questi strumenti di morte? Lo racconta Franca Faita, ex operaia della Valsella Meccanotecnica. Un giorno il fondatore di Emergency Gino Strada le presenta una cassetta piena di mine TC-6 e Valmara 59 chiedendole se le conoscesse e a cosa servissero.
«A difendere il territorio dal nemico» dice Franca, perché questo le avevano detto. Strada le parla delle vittime civili, dei bambini. E Franca cambia idea. Con i suoi compagni in fabbrica lotta per chiedere la riconversione dell'azienda in senso civile. «Perché per lavorare e vivere dobbiamo costruire mine che uccidono?» chiedono. Alla fine, grazie a una legge approvata anche per gli sforzi degli operai, la Valsella smette di produrre esplosivi.
Ma le mine restano. Ieri nella chiesa di S. Maria degli angeli e dei martiri a Roma si sono tenute le esequie del caporalmaggiore capo Pierdavide De Cillis e del maresciallo Mauro Gigli, i due militari morti mercoledì in Afghanistan durante la bonifica di un ordigno. I feretri sono stati accolti dal presidente della Repubblica Napolitano e dalle massime autorità.
Non sappiamo se la mina che stavano disinnescando fosse italiana, di derivazione italiana o che altro. E forse non importa. Non è infatti l'ironia del destino ad aver portato in terra afghana prima le mine e poi i blindati Nato, ma la stessa cultura di morte.
Il Manifesto
Un gigantesco cortocircuito, che emerge dagli oltre 90mila documenti militari Usa, diffusi dal sito di controinformazione WikiLeaks. Migliaia sono i rapporti che parlano di Italia, e di questi, centinaia sono i resoconti di pattuglie o unità di artificieri, che parlano di una sola cosa: mine. Mine italiane e congegni artigianali ma micidiali, gli Ied («Improvised explosive devices»), fabbricati dai taleban con i nostri stessi ordigni. Abbiamo reso un grande servizio all'Afghanistan: prima imbottito di TC-6 («le Ferrari dell'esplosivo anti-carro», stando agli esperti), poi percorso dai nostri blindati. Le strade afghane parlano di Italia a ogni chilometro. Morti e crateri inclusi. Unico neo: quegli «unsufferables» di Emergency (come li definiscono i rapporti Usa), che ricuciono i corpi dilaniati.
Il database di WikiLeaks parla chiaro. Il primo report disponibile a riguardo è datato 6 gennaio 2004. In una perquisizione all'interno di edifici governativi che dovevano ospitare medicine e cibo, viene scoperto un deposito di armi, munizioni ed esplosivi. Tra questi alcune mine italiane anti-carro di tipo 2.4 e TC-6. Da quella data si susseguono senza sosta le testimonianze dei micidiali Ied, in gran parte realizzati con parti di ordigni nostrani.
A quanto pare sono proprio queste mine anti-carro il prodotto made in Italy più diffuso in Afghanistan. Il 14 settembre 2006, quando un mezzo militare Nato viene colpito da uno Ied, si analizza il cratere, e il responso è: mina pakistana... o italiana. Il 5 maggio un'altra pattuglia italiana era stata investita da un'esplosione da Ied vicino Kabul. Due morti e quattro feriti. Il tenente Manuel Fiorito, 27 anni, e il maresciallo ordinario Luca Polsinelli, 29 anni, perdono la vita. Ma non compaiono nel documento Usa. Il 28 agosto 2008 un'altra mina distrugge un blindato italiano e ferisce i tre militari al suo interno; questa volta è senza dubbio una mina italiana.
Sono tre i tipi di ordigni italiani sepolti in Afghanistan, e in totale rappresentano un quarto delle mine anti-carro. Le TC-6, prodotte dalla barese Tecnovar srl, e le 2.4 e Valmara 59 prodotte dalla Valsella Meccanotecnica di Castenedolo, Brescia. Sono dispositivi molto resistenti (durano oltre 50 anni sotto terra, molto più di qualunque protesi) e sono in grado di generare voragini ampie decine di metri. Come quella del 24 maggio 2006: un camion salta su una mina, vicino Yaqubi. Due civili afghani muoiono, un terzo rimane ferito. Gli artificieri Nato riportano: «Il cratere dell'esplosione era profondo 23 metri e ampio 84. A giudicare dalla dimensione del cratere e dalla mancanza di frammenti, era presumibilmente una TC-6 italiana».
Ma come ci sono arrivati lì questi ordigni? Il generale Franco Termentini, esperto di bonifiche, non ha dubbi: «Sono lì da prima del marzo 1989». Si tratterebbe, insomma, di forniture di armi fatte dagli americani agli insorgenti afghani in chiave anti-sovietica. Dopo il ritiro dell'Armata Rossa dall'Hindukush, le mine sono rimaste là e negli anni hanno costituito una vasta risorsa di esplosivi per i «nuovi nemici» taleban, dopo l'11 Settembre 2001. Lo conferma un ufficiale del Pentagono citato dall'Asia Times: le TC-6 di fabbricazione italiana sono «assai comuni» nelle zone sotto il controllo taleban e «continuano a minacciare in modo significativo le forze della Nato».
Ma da quale oscura fabbrica sono usciti questi strumenti di morte? Lo racconta Franca Faita, ex operaia della Valsella Meccanotecnica. Un giorno il fondatore di Emergency Gino Strada le presenta una cassetta piena di mine TC-6 e Valmara 59 chiedendole se le conoscesse e a cosa servissero.
«A difendere il territorio dal nemico» dice Franca, perché questo le avevano detto. Strada le parla delle vittime civili, dei bambini. E Franca cambia idea. Con i suoi compagni in fabbrica lotta per chiedere la riconversione dell'azienda in senso civile. «Perché per lavorare e vivere dobbiamo costruire mine che uccidono?» chiedono. Alla fine, grazie a una legge approvata anche per gli sforzi degli operai, la Valsella smette di produrre esplosivi.
Ma le mine restano. Ieri nella chiesa di S. Maria degli angeli e dei martiri a Roma si sono tenute le esequie del caporalmaggiore capo Pierdavide De Cillis e del maresciallo Mauro Gigli, i due militari morti mercoledì in Afghanistan durante la bonifica di un ordigno. I feretri sono stati accolti dal presidente della Repubblica Napolitano e dalle massime autorità.
Non sappiamo se la mina che stavano disinnescando fosse italiana, di derivazione italiana o che altro. E forse non importa. Non è infatti l'ironia del destino ad aver portato in terra afghana prima le mine e poi i blindati Nato, ma la stessa cultura di morte.
Il Manifesto
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